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Alzo gli occhi per dire sì: linguaggio, simboli e inclusione

Alla fine dello scorso anno la casa editrice Homeless Book di Faenza (specializzata in testi in Comunicazione Aumentativa, tra cui molti realizzati col modello inbook) ha pubblicato la prima edizione italiana del libro Alzo gli occhi per dire sì di Ruth Sienkiewicz-Mercer e Steven B. Kaplan. Il libro è originariamente stato pubblicato nel 1989 col titolo I Raise My Eyes to Say Yes e l’edizione italiana ha visto la partecipazione di Steven Kaplan alle due presentazioni, una a Milano presso il Centro Benedetta D’Intino il 12 gennaio e un’altra a Granarolo (BO) presso L’Arche Comunità Arcobaleno il 13. Alla presentazione di Milano oltre a Kaplan hanno partecipato, in teleconferenza dagli Stati Uniti, anche John Costello (Speech Language Pathologist, Augmentative Communication Program Director at Boston Children’s Hospital, Massachusetts) e Howard Shane (Speech Language Pathologist, Director of the Autism Language Program and Communication Enhancement Program at Boston Children’s Hospital, Massachusetts oltre che insegnante di Ruth Sienkiewicz-Mercer alla Belchertown State School).

Presentazione presso il Centro Benedetta D'Intino di Milano

Alzo gli occhi per dire sì è l’autobiografia di Ruth Sienkiewicz-Mercer. Nata nel 1950, a cinque settimane ha sviluppato un’encefalite che l’ha portata a soffrire di paralisi cerebrale. Limitatissime possibilità di vocalizzazione e di movimento hanno portato il personale alla Belchertown State School, dove la famiglia l’aveva ricoverata per motivi economici dopo una iniziale breve permanenza in un istituto meglio attrezzato, ha considerarla una sorta di vegetale umano ed a farle trascorrere anni immobilizzata in un letto. Nonostante le difficoltà e nonostante l’incapacità da parte del personale di riconoscere l’intelligenza di Ruth all’interno di un corpo quasi inservibile, questa non si è mai data per vinta ed ha lentamente costretto il personale dell’istituzione a riconoscere le sue capacità ed a offrirle strumenti per svilupparle. Per poter comunicare, anche con il suo contributo, sono state create tabelle comunicative (non a caso il sottotitolo scelto per l’edizione italiana è: Una storia alle origini della Comunicazione Aumentativa Alternativa) con cui ha “scritto” assieme a Kaplan la sua storia. Alla base di tutta la sua comunicazione c’è - come da titolo - il movimento degli occhi “per dire sì” a ui Kaplan doveva faticosamente arrivare sviluppando le indicazioni incredibilmente sintetiche (poste all’inizio di ogni paragrafo) ottenute da Ruth mediante le tabelle. Qui la toccante testimonianza di Kaplan che ha descritto il lavoro di Ruth come un incredibile lavoro di sintesi mentale per condensare interi discorsi in poche parole che poi Kaplan aveva il compito di tornare a distendere in una narrazione coerente e particolareggiata facendo ipotesi e sottoponendole a Ruth che, con i suoi molti no e con qualche sì, lo conducevano a quanto lei aveva intenzione di esprimere. La mia impressione sul libro, condivisa con altri che lo hanno letto, è che si tratta di una lettura coinvolgente ed appassionante alla stregua di un bestseller: personalmente l’ho “divorato” in tre giorni. Il punto che più mi ha emozionato è il racconto di quando Ruth - ragazzina - era stata depositata in un letto - immobile - di fianco ad un’altra ospite affetta da paralisi cerebrale: Therese. Pian piano le due donne hanno compreso di trovarsi nella medesima condizione: incapaci a comunicare col personale. A quel punto hanno sviluppato un loro personale codice per comunicare tra loro. Questo episodio mi ha interessato ed emozionato principalmente per due motivi. Uno ludico: è quello che succede in Journey quando cerchiamo di comunicare con gli altri giocatori e a disposizione abbiamo esclusivamente un’unica nota musicale. Per poter interagire perciò siamo “costretti” ad inventarci un mix di ripetizione della nota e di azioni disponibili al nostro personaggio (avanzare, attendere, tornare indietro, saltare, ecc.). Chiaramente da una parte abbiamo un problema ludico mentre dall’altro quella della sopravvivenza mentale, se non fisica. Ma questo ci mostra che l’esigenza di comunicare oltrepassa quasi qualsiasi limitazione. E questo ci porta al secondo motivo per cui riprendiamo il primo degli assiomi della comunicazione formulati da Paul Watzlawick, Janet Beavin e Don Jackson nel loro fondamentale Pragmatica della comunicazione umana (Astrolabio, edizione originale: 1967): “non si può non comunicare”. Nel senso che non è possibile entrare in relazione con un altro essere umano senza che all’interno di tale relazione ci sia una componente comunicativa (anche il rifiuto di comunicazione diventa una comunicazione). Da notare che comunicare non è un’attività esclusivamente umana: tutti gli esseri viventi (animali e vegetali) comunicano. Esclusività umana è il linguaggio (che si declina nelle lingue storiche): una comunicazione di un tale livello di complessità e formalizzazione che eccede qualitativamente (oltre che quantitativamente) qualsiasi altra forma di comunicazione tra viventi presente in natura. Ho più volte su questo blog affrontato il tema del linguaggio e in calce a questo post lascerò un elenco di link. Per ora ci basti tornare a Ruth e Therese, confinate nei rispettivi letti e apparentemente due corpi che si limitano a vegetare. Dato che al contrario entrambe hanno un notevole livello intellettivo, lentamente iniziano a codificare un sistema di messaggi (fatto di piccoli movimenti e vocalizzazioni) che progressivamente, iniziando ad incorporare elementi simbolici, inizia ad evolvere in direzione di un embrione di linguaggio. Questa situazione parrebbe giustificare l’uso “terapeutico” della Comunicazione Aumentativa Alternativa che si è sviluppata nel corso degli anni per permettere di far accedere al linguaggio le persone con bisogni comunicativi complessi. È del resto quanto l’editore dichiara nel sottotitolo. Personalmente sono convinto esattamente del contrario: Alzo gli occhi per dire sì non parla della comunicazione come terapia “rogersianamente” centrata-sul-cliente, ma della comunicazione come linguaggio. La CAA come terapia è quella che all’interno della famiglia e della neuropsichiatria infantile si sviluppa tra i vari attori coinvolti, ad esempio con la costruzione dei “libri personalizzati” in cui vengono utilizzati gli strumenti comunicativi più adatti per poter attivare la trasmissione di contenuti semantici. Il problema nasce però quando la persona con bisogni comunicativi complessi esce da questi spazi sostanzialmente circoscritti e protetti e, ad esempio, va a scuola o all’interno degli spazi sociali, improvvisamente si ritrova in uno spazio in cui la comunicazione usata è un’eccezione e diventa difficile far usare le convenzioni comunicative sviluppate specificatamente per quella persona. Al contrario la storia di Ruth ci mostra come gli strumenti sviluppati (le tabelle comunicative) abbiano consentito non ad un esperto di CAA ma ad un avvocato digiuno di competenze logopedistiche come Steven Kaplan che per certi versi casualmente si trova in rapporto con lei di poter colloquiare con lei al punto di potersi assumere il compito di trascrivere la sua storia. Già ho parlato di CAA trasformata in dialetto: la pretesa di scientificità e purezza, piuttosto che di rispondenza ad uno specifico pubblico, hanno esattamente questo effetto: creano un linguaggio che si rivolge ad un gruppo tutto sommato limitato piuttosto che ad una comunità trasversale di parlanti. Un linguaggio che si rivolge ad un gruppo tutto sommato limitato piuttosto che ad una comunità trasversale di parlanti lo definisco dialetto piuttosto che lingua. Temo che l’eccezionale contaminazione tra neuropsichiatrie, biblioteche e scuole che ha prodotto, caso unico al mondo, i libri in simboli pubblicati dagli editori e disponibili a tutti nelle librerie, si stia sfaldando con ogni istituzione e realtà che progressivamente si ri-settorializza: le neuropsichiatrie che si occupano di terapia, le varie realtà bibliotecarie che si dedicano unicamente ai modelli di riferimento con le case editrici con cui hanno rapporti, le scuole che pensano alla didattica specifica per gli studenti presenti, ecc. Ed è un peccato perché il linguaggio simbolico, un linguaggio simbolico condiviso che possa essere utilizzato come lingua di riferimento per tutti: usato prioritariamente dalle persone con bisogni comunicativi complessi, ma disponibile a tutti proprio perché standardizzata e presente tendenzialmente ovunque all’interno degli spazi sociali. Per altro esempi di linguaggio simbolico standardizzato e di uso comune non sono poi così difficili da trovare: pensiamo, su tutti, all’esempio della segnaletica stradale. Una combinazione di forme, colori e simboli crea un vero e proprio linguaggio che tutti siamo abituati ad usare ed interpretare nella nostra vita di tutti i giorni. Il lavoro compiuto da Ruth Sienkiewicz-Mercer va esattamente in direzione di una comunicazione della persona con bisogni comunicativi complessi all’interno dello spazio sociale e culturale. Non è un caso la sua volontà di scrivere un libro che possa essere letto, tramite la mediazione di Kaplan, da tutti. E il consiglio, personale ma caloroso ed appassionato, è quello di leggerlo per capire come inclusione non siano strumenti o competenze speciali ma prima di tutto uno stato mentale, una disposizione all’apertura e all’ascolto, un’attenzione e una pazienza a lasciare esprimere l’altro. Attenzione che in qualche modo, dopo averla clamorosamente ottenuta nell’ottusa istituzione che ha contribuito a far chiudere, Ruth Sienkiewicz-Mercer ha perso per pochi attimi fatali nel 1998 perché chi la accudiva non si era accorto di un boccone troppo grande che coi suoi problemi di deglutizione l’ha soffocata.





Prima edizione


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