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Suzette Haden Elgin e il problema della lingua inclusiva

Leggendo testi sul linguaggio e la sua origine mi sono imbattuto nella linguista Suzette Haden Elgin e nel suo romanzo di fantascienza Lingua nativa, pubblicato in italiano da Del Vecchio Editore nel 2021. In realtà il libro è stato originariamente pubblicato negli Stati Uniti nel 1984 come primo capitolo di una trilogia (non disponibile in italiano) composta anche da The Judas Rose (1987) e Earthsong (1994). Il libro è ambientato in un futuro (tra il XXII e il XXIII secolo) dove il genere femminile dell’umanità è considerato inferiore e privato di tutti i diritti individuali e collettivi. Provate a pensare alla situazione dell’Iran o di altri stati in cui impera il fondamentalismo islamico. Ma nel futuro immaginato da Elgin non è la religione all’origine della discriminazione ma una sorta di pregiudizio di genere (da svariati critici Lingua nativa viene accostato al Racconto dell’ancella, anche se è stato pubblicato l’anno prima del romanzo di Margaret Atwood) che sostanzialmente fa considerare le donne eterne minorenni, incapaci di arrivare al pieno godimento dei propri diritti, ma sempre costrette a dipendere dai maschi per qualsiasi cosa: viaggi, lavoro, acquisti, ecc. Nonostante questa perenne condizione di minorità, le donne non sono costrette al “focolare domestico” e anzi vengono mandate sia a scuola sia al lavoro. In particolare una delle protagoniste di Lingua Nativa, Nazareth Chornyak, è, fin da bambina, una linguista estremamente esperta nel tradurre le lingue degli alieni con cui gli esseri umani che si stanno espandendo nello spazio devono trattare e commerciare. E l’ambientazione vede una Terra non più sovraffollata grazie alla migrazione nello spazio ed alla creazione di colonie extraterrestri dominata economicamente da tredici casate (Linee) di linguisti che sono indispensabili per condurre a buon fine trattati diplomatici e commerciali con gli alieni. Queste casate sono contemporaneamente ricchissime e disprezzate dalla gente comune che crede abbiano raggiunto con l’astuzia e l’inganno il potere e l’influenza. Per evitare attacchi terroristici le Linee si sono rifugiate in una sorta di ville/vault separate dal resto del consesso civile. All’interno di questi rifugi i bambini, fin da piccolissimi, vengono addestrati a padroneggiare un ampio numero di lingue, sia terrestri sia aliene. Alle femmine, oltre al lavoro come interpreti, è assegnato anche il ruolo riproduttivo, che deve iniziare appena fisiologicamente possibile, per infoltire la schiera di linguisti disponibili e, di conseguenza, il potere economico della casata. Una volta terminata la capacità riproduttiva - o per vecchiaia, o per incidente, o per malattia – le donne vengono “esiliate” nelle Case Sterili, non per evitare il contributo all’attività di traduzione se la salute lo consente loro, ma piuttosto per non dare noia ai maschi della casata con le loro manie femminili, intrinsecamente considerate infantili e vacue. Ma, all’interno delle Case Sterili, le donne sono al lavoro per creare una lingua che esprima quello che le donne sentono e provano, nella convinzione che questa nuova lingua femminile, il Làadan, possa, una volta appresa da tutte o dalla maggior parte delle donne, cambiare (il modo di percepire) il mondo. Il Làadan è una forma di test per verificare l’ipotesi di Sapir-Whorf. Da Wikipedia

In linguistica, l'ipotesi di Sapir-Whorf (o Sapir-Whorf Hypothesis, in sigla SWH), conosciuta anche come ipotesi della relatività linguistica, afferma che lo sviluppo cognitivo di ciascun essere umano è influenzato dalla lingua che parla. Nella sua forma più estrema, questa ipotesi assume che il modo di esprimersi determini il modo di pensare.

Già Mark Solms nel suo libro La fonte nascosta. Un viaggio alle origini della coscienza (l’ho presentato qui) espone un esperimento che dimostra come materialmente non vediamo quello che il nostro cervello non è preparato a vedere, indipendentemente dalla capacità visiva. La realtà in cui noi viviamo è una costruzione mentale ed è lo stesso concetto che Elgin riporta in forma narrativa:

Primo principio: la realtà non esiste. La creiamo noi attraverso la percezione di stimoli dall’ambiente esterno e interno e su questa facciamo delle affermazioni. Tutti percepiscono delle cose, tutti creano affermazioni su queste e tutti, per quel che ne sappiamo, sono abbastanza d’accordo per riuscire a cavarsela, cosicché quando dico “Passami il caffè” tu sai cosa passarmi. Questa è la realtà. Secondo principio: le persone si abituano a un certo tipo di realtà, se l’aspettano, e se ciò che percepiamo non rientra nell’insieme delle affermazioni su cui tutti sono d’accordo, la cultura o viene via via modificata finché non si adatta... o le persone si limitano a cancellarla.

Il Làadan non è però solo un’invenzione narrativa perché Elgin – che effettivamente era una linguista – ha sviluppato questa lingua anche al di fuori dei romanzi pubblicando anzi diverse edizioni del Dizionario e grammatica Làadan e, dopo la sua morte avvenuta nel 2015, altre studiose hanno portato avanti il progetto, come testimonia il sito Làadan Language. L’incontro con questa lingua, sia nella versione narrativa del romanzo, sia nella versione scientifica sul sito, mi ha fatto pensare alla difficoltà che personalmente provo con i testi (intendo i testi pubblicati editorialmente, non i post, le mail, i messaggi vari in cui ognuno è libero di fare quel che gli pare quanto gli altri eventualmente di non leggerlo e ignorarlo) che utilizzano sistematicamente la “ǝ”. Già in passato mi ero espresso a questo proposito a riguardo del libro Decostruzione antiabilista e ne riporto qui quanto a suo tempo scritto:

Quando si legge: “i rapporti con lə altrə” o “personaggə disabili” (e mille altri potrebbero essere gli esempi in un testo pur così breve) non si può non storcere il naso se si ha anche un minimo di affetto per la lingua italiana. Nel primo caso la frase al maschile sarebbe “i rapporti con gli altri” e al femminile “i rapporti con le altre”: come si vede non è sufficiente sostituire le vocali finali di nome e articolo con la (famigerata) “schwa” perché i due articoli sono nei due casi completamente diversi e la forma usata dalle autrici può ricondurre solamente alla forma femminile (alla faccia della sbandierata sollecitazione all’inclusività). Ancora peggiore l’esempio successivo che pretende che la parola “personaggio” possa avere una forma sia maschile sia femminile: a questo punto pretendiamo tale bipolarità da qualsiasi nome e scriviamo solamente “librə”, “scatolə”, “scarpə”, “palazzə”, ecc.? Forse una soluzione meno brutta l’avevo incontrata in alcuni testi statunitensi che utilizzavano esclusivamente le forme femminili o che utilizzavano alternativamente la forma femminile e quella maschile. Mi sembra, per concludere, che la necessaria inclusività della rappresentazione (nei social, nei media, nella comunicazione) non passi dallo stravolgimento – troppo spesso ipocrita e soprattutto sterile - della lingua ma piuttosto nel suo uso accorto e preciso che renda possibile a tutte e a tutti riconoscere problemi e valutare soluzioni.

Può la soluzione essere la creazione di una nuova lingua realmente inclusiva? Le traduttrici di Lingua nativa – Costanza Fusini e Valentina Dragoni – sottolineano, nella nota conclusiva, come il testo di Elgin sia figlio del suo tempo (i primi anni ‘80) e della reazione culturale alla retriva ideologia reaganiana imperante e che perciò metta in scena una dicotomia maschile/femminile, mentre oggi c’è tutta una galassia di generi non binari che – nonostante la retorica della destra – fatica a trovare una rappresentazione. Se l’utilizzo della “schwa” è un palliativo poco efficace – sia per lo stupro della grammatica sopra segnalato, sia perché non esiste un suo equivalente verbale che possa davvero farlo entrare nell’uso comune – il problema di una “lingua artificiale” è analogo: finché non diventa una lingua parlata ed usata trasversalmente, è destinata a restare inesorabilmente a livello di esperimento più o meno significativo. Nel romanzo di Elgin l’utilizzo del Làadan è garantito dallo stato di segregazione non solo giuridica ma anche fisica delle donne, ma come è possibile in una società iperconnessa riuscire a promuovere una nuova lingua per quanto teoricamente migliore di quelle esistenti? Del resto questo è stato il destino dell’esperanto che, nonostante i propositi, non è riuscito ad affermarsi perché non è mai stato una lingua usata comunemente, una lingua parlata. E, non di meno, la suggestione del Làadan è forte e merita riflessione per cercare una strada verso una lingua e una comunicazione il più possibile inclusive.

La speranza è inoltre che siano pubblicati in italiano anche gli altri due romanzi della serie, dato che Elgin lascia aperti, alla conclusione di Lingua nativa, diversi sentieri, tra cui il problema dell’interfacciamento con alieni non umanoidi che, nel corso del romanzo, ha portato solo fallimenti terribili.







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