In linguistica, l'ipotesi di Sapir-Whorf (o Sapir-Whorf Hypothesis, in sigla SWH), conosciuta anche come ipotesi della relatività linguistica, afferma che lo sviluppo cognitivo di ciascun essere umano è influenzato dalla lingua che parla. Nella sua forma più estrema, questa ipotesi assume che il modo di esprimersi determini il modo di pensare.
Già Mark Solms nel suo libro La fonte nascosta. Un viaggio alle origini della coscienza (l’ho presentato qui) espone un esperimento che dimostra come materialmente non vediamo quello che il nostro cervello non è preparato a vedere, indipendentemente dalla capacità visiva. La realtà in cui noi viviamo è una costruzione mentale ed è lo stesso concetto che Elgin riporta in forma narrativa:
Primo principio: la realtà non esiste. La creiamo noi attraverso la percezione di stimoli dall’ambiente esterno e interno e su questa facciamo delle affermazioni. Tutti percepiscono delle cose, tutti creano affermazioni su queste e tutti, per quel che ne sappiamo, sono abbastanza d’accordo per riuscire a cavarsela, cosicché quando dico “Passami il caffè” tu sai cosa passarmi. Questa è la realtà. Secondo principio: le persone si abituano a un certo tipo di realtà, se l’aspettano, e se ciò che percepiamo non rientra nell’insieme delle affermazioni su cui tutti sono d’accordo, la cultura o viene via via modificata finché non si adatta... o le persone si limitano a cancellarla.
Il Làadan non è però solo un’invenzione narrativa perché Elgin – che effettivamente era una linguista – ha sviluppato questa lingua anche al di fuori dei romanzi pubblicando anzi diverse edizioni del Dizionario e grammatica Làadan e, dopo la sua morte avvenuta nel 2015, altre studiose hanno portato avanti il progetto, come testimonia il sito Làadan Language. L’incontro con questa lingua, sia nella versione narrativa del romanzo, sia nella versione scientifica sul sito, mi ha fatto pensare alla difficoltà che personalmente provo con i testi (intendo i testi pubblicati editorialmente, non i post, le mail, i messaggi vari in cui ognuno è libero di fare quel che gli pare quanto gli altri eventualmente di non leggerlo e ignorarlo) che utilizzano sistematicamente la “ǝ”. Già in passato mi ero espresso a questo proposito a riguardo del libro Decostruzione antiabilista e ne riporto qui quanto a suo tempo scritto:
Quando si legge: “i rapporti con lə altrə” o “personaggə disabili” (e mille altri potrebbero essere gli esempi in un testo pur così breve) non si può non storcere il naso se si ha anche un minimo di affetto per la lingua italiana. Nel primo caso la frase al maschile sarebbe “i rapporti con gli altri” e al femminile “i rapporti con le altre”: come si vede non è sufficiente sostituire le vocali finali di nome e articolo con la (famigerata) “schwa” perché i due articoli sono nei due casi completamente diversi e la forma usata dalle autrici può ricondurre solamente alla forma femminile (alla faccia della sbandierata sollecitazione all’inclusività). Ancora peggiore l’esempio successivo che pretende che la parola “personaggio” possa avere una forma sia maschile sia femminile: a questo punto pretendiamo tale bipolarità da qualsiasi nome e scriviamo solamente “librə”, “scatolə”, “scarpə”, “palazzə”, ecc.? Forse una soluzione meno brutta l’avevo incontrata in alcuni testi statunitensi che utilizzavano esclusivamente le forme femminili o che utilizzavano alternativamente la forma femminile e quella maschile. Mi sembra, per concludere, che la necessaria inclusività della rappresentazione (nei social, nei media, nella comunicazione) non passi dallo stravolgimento – troppo spesso ipocrita e soprattutto sterile - della lingua ma piuttosto nel suo uso accorto e preciso che renda possibile a tutte e a tutti riconoscere problemi e valutare soluzioni.
Può la soluzione essere la creazione di una nuova lingua realmente inclusiva? Le traduttrici di Lingua nativa – Costanza Fusini e Valentina Dragoni – sottolineano, nella nota conclusiva, come il testo di Elgin sia figlio del suo tempo (i primi anni ‘80) e della reazione culturale alla retriva ideologia reaganiana imperante e che perciò metta in scena una dicotomia maschile/femminile, mentre oggi c’è tutta una galassia di generi non binari che – nonostante la retorica della destra – fatica a trovare una rappresentazione. Se l’utilizzo della “schwa” è un palliativo poco efficace – sia per lo stupro della grammatica sopra segnalato, sia perché non esiste un suo equivalente verbale che possa davvero farlo entrare nell’uso comune – il problema di una “lingua artificiale” è analogo: finché non diventa una lingua parlata ed usata trasversalmente, è destinata a restare inesorabilmente a livello di esperimento più o meno significativo. Nel romanzo di Elgin l’utilizzo del Làadan è garantito dallo stato di segregazione non solo giuridica ma anche fisica delle donne, ma come è possibile in una società iperconnessa riuscire a promuovere una nuova lingua per quanto teoricamente migliore di quelle esistenti? Del resto questo è stato il destino dell’esperanto che, nonostante i propositi, non è riuscito ad affermarsi perché non è mai stato una lingua usata comunemente, una lingua parlata. E, non di meno, la suggestione del Làadan è forte e merita riflessione per cercare una strada verso una lingua e una comunicazione il più possibile inclusive.
La speranza è inoltre che siano pubblicati in italiano anche gli altri due romanzi della serie, dato che Elgin lascia aperti, alla conclusione di Lingua nativa, diversi sentieri, tra cui il problema dell’interfacciamento con alieni non umanoidi che, nel corso del romanzo, ha portato solo fallimenti terribili.
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