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La mente è un flusso di immagini

 Ho di recente letto Sentire e conoscere. Storia delle menti coscienti del neuroscienziato portoghese Antonio Damasio (Adelphi, 2022). Il testo riprende e sintetizza le tesi già proposte dall’autore in testi precedenti ben più approfonditi. Sostanzialmente le ricerche di Damasio mettono in luce come tra mente e corpo non vi sia dicotomia, ma che anzi l’intelligenza e la coscienza nascono anche grazie alle espressioni che il corpo trasmette alla mente: i sentimenti. Nel suo nuovo testo Damasio esprime sinteticamente e perfettamente la sua posizione:

Cominciata quattro miliardi di anni fa, la storia degli organismi viventi ha poi imboccato diverse vie; in quella che ha portato a noi, mi piace immaginare una sequenza di tre stadi evolutivi distinti. Un primo stadio è caratterizzato dall’essere [being]; il secondo è dominato dal sentire [feeling]; e il terzo è definito dal conoscere [knowing] nel senso generale del termine. In ciascun essere umano contemporaneo – e questo è singolare – sono riscontrabili momenti in qualche modo simili a quei tre stadi e che si sviluppano nella stessa sequenza. Gli stadi dell’essere, del sentire e del conoscere corrispondono a sistemi anatomici e funzionali separabili che coesistono all’interno di ciascuno di noi esseri umani e che, a seconda delle necessità, sono coinvolti nella vita adulta.

I sentimenti non sono solo quelli tradizionalmente così intesi (voler bene, odiare, stimare, ecc.) quanto tutte le sensazioni che ci arrivano da tre fonti: il mondo al nostro esterno, il mondo al nostro interno, l’apparato muscolo-scheletrico con cui noi operiamo sulla realtà. Quello che più però mi ha fatto riflettere è che Damasio spiega come la mente funzioni operando non su un “flusso di coscienza”, ma piuttosto su un “flusso di immagini” che essa stessa crea. Anche qui “immagini” non è da intendere in senso esclusivamente visivo, in quanto si tratta del prodotto di tutti i sensi e perciò stanno sullo stesso piano immagini visive, uditive, olfattive, tattili, gustative. Queste immagini – lo ribadisco – per Damasio non sono “ricevute” attraverso i sensi dalla mente (come succede per un registratore o per una macchina fotografica) ma “create” dalla mente. E questo potrebbe portarci filosoficamente lontano perché giustifica a livello neurofisiologico il soggettivismo dell’idealismo. Ma qui ed ora mi interessa piuttosto soffermarmi sul “flusso di immagini”. Ovviamente questo flusso di immagini non è uno specifico dell’essere umano ma è una modalità operativa di tutti gli esseri viventi che possiedono un sistema nervoso dotato di cervello. Tanto la mia mente che quella del mio gatto (sarebbe in realtà di mio figlio, ma chi lo cura e lo mantiene sono io) operano creando un flusso continuo di immagini dagli impulsi e dai sentimenti che il nostro corpo (incluso il sistema nervoso) ci mettono a disposizione. Qual è allora la differenza tra noi? Apparentemente la tecnica (ed utilizzo volutamente il termine pensando ad Heidegger): ma l’utilizzo e la costruzione di attrezzi per agire sul mondo e modificarlo non è un’esclusiva umana (ne scrivevo già qui) anche se l’essere umano ne ha fatto un’abilità di grado immensamente più elevato di quello a cui sia giunta qualsiasi altra specie conosciuta. La vera differenza sostanziale tra essere umano ed altre specie è il linguaggio. Tutte le specie comunicano tra loro ed alcune (i nostri parenti più vicini da un punto di vista evolutivo) hanno anche un apparato di fonazione che potrebbe permettere loro di utilizzare il linguaggio. Ma non lo fanno. Qual è la differenza? Per rispondere a questa domanda ne utilizzo un’altra: cos’è il linguaggio? Dal punto di vista di quanto presentato da Damasio, il linguaggio è la traduzione in un sistema di simboli delle immagini che compongono il flusso che costituisce la nostra coscienza. L’uomo primitivo, per riuscire a sopperire a diversi deficit evolutivi e con l’obiettivo di soddisfare i tre obiettivi (di cui ho parlato qui):

  • la mutua fiducia e la disponibilità alla cooperazione;

  • la capacità di insegnare positivamente ai cuccioli;

  • la passione per lo “storytelling”;

ha trasposto le immagini della coscienza in immagini sulle grotte e in suoni che si sono progressivamente evoluti in linguaggi sempre più complessi ed astratti. Quindi il linguaggio è la simbolizzazione del flusso di immagini che viene prodotto dalla nostra mente. Dovremo tenerlo presente quando lavoriamo sui linguaggi simbolici per la Comunicazione Aumentativa. La creazione di simboli che aiutino l’accesso al linguaggio da parte di persone con bisogni comunicativi complessi non è una “aggiunta” al linguaggio, ma forse il ritorno (non per questo più semplice) ad una forma precedente, più primitiva del linguaggio. Utilizzando non una “rappresentazione” quanto una universalizzazione iconica dei concetti da tradurre. Lo scrivevo già nel post precedente: l’idea (platonica) di cavallo è una cavallo che possa riassumere le caratteristiche particolari di tutti i cavalli, non il cavallo che ho visto ieri al maneggio (non è vero che ho visto un cavallo, ma il linguaggio ci serve anche per raccontare bugie). Questa prospettiva mi sembra anche dare torto a chi, lavorando sui linguaggi simbolici per i bambini più piccoli o per le persone con bisogni comunicativi estremamente complessi, ritiene inutile e/o dannoso l’utilizzo di simboli per le parole che non abbiano un corrispettivo oggettivo (articoli, congiunzioni, avverbi, ecc.). Perché, seguendo la linea di ragionamento iniziata con l’intuizione di Damasio, la difficoltà non sta nel riconoscere il collegamento tra parola e simbolo, quanto nel riconoscere il collegamento tra il simbolo e l’immagine corrispondente nella nostra mente. E questo vale per qualsiasi simbolo: sia che abbia un corrispettivo oggettivo nella realtà esterna, sia che si tratti di un costrutto linguistico funzionale alla comunicazione. Del resto per i “normo-leggenti” la lettura in simboli può essere più difficoltosa rispetto a quella di una persona con bcc. Avevo fatto esattamente un test in questo senso all’inizio del mio percorso formativo con la CAA: avevo preso un testo in simboli e ne avevo tolto le etichette alfabetiche, somministrandolo poi a diversi soggetti “normo-leggenti”. Che non avevano assolutamente saputo decodificare il testo. Perché nella loro mente si era già stabilizzato l’accoppiamento tra le immagini del flusso mentale con il sistema simbolico costituito dalla scrittura. Ma, se devo ancora imparare un qualsiasi sistema simbolico – scrittura o CAA –, allora non è sensato preoccuparmi di fornire simboli che non abbiano immediato riscontro nell’esperienza quotidiana proprio perché il collegamento non deve avvenire con le immagini “esteriori”, ma piuttosto con quelle “interiori”.




 

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