Nel libro L’alba del linguaggio. Come e perché i Sapiens hanno iniziato a parlare (Ponte alle Grazie, 2021) del fisico e linguista svedese Sverker Johansson si cerca di individuare quale e quando sia stata l’origine del linguaggio e perché il linguaggio stesso sia una prerogativa umana. Il libro di Johansson è di piacevolissima lettura, ma faccio qui biecamente spoiler e anticipo che, in base alle informazioni attualmente disponibili l’origina del linguaggio può essere collocata tra un milione e cinquecentomila anni fa, non tra l’homo sapiens, quanto verso la fine della lunga fase storia che ha visto la presenza dell’homo erectus. Johansson porta infatti prove del fatto che sia i Neanderthal sia i Sapiens possedessero l’uso della lingua, che ha permesso alle due specie di fondersi in Europa ed in Asia.
Ma molto più interessante del quando, è il perché: perché gli umani comunicano tramite una lingua complessa governata da una grammatica che ha strutture comuni in tutte le lingue del mondo?
Johansson lo spiega in maniera chiara ed appassionante ma mi sia permesso di sintetizzare qui i tre fattori fondamentali la cui compresenza è assente in qualsiasi altra specie animale:
- la mutua fiducia e la disponibilità alla cooperazione;
- la capacità di insegnare positivamente ai cuccioli;
- la passione per lo “storytelling” (che sia narrazione o chiacchiera anche malevola non ha molta importanza; Johansson chiama questa attività: “fare salotto”).
Altri animali comunicano in forme anche molto elaborate (il canto degli usignoli o il volo delle api) mentre altri avrebbero teoricamente la possibilità di utilizzare quanto meno un proto-linguaggio (i primati) ma non lo fanno se non in condizioni sperimentali ed artificiali. Nessun’altra specie animale, neppure i nostri più prossimi cugini, hanno contemporaneamente le sopra richiamate tre caratteristiche. I problemi posti dal punto di vista evolutivo da queste caratteristiche possono essere risolte solo tramite il linguaggio.
La mutua fiducia e la disponibilità alla collaborazione si ha ad esempio quando i cuccioli umani sono lasciati in custodia a parenti o a baby sitter senza timore che – come avviene tra le scimmie – questi vengano uccisi perché appartenenti ad un’altra famiglia e quindi competitori all’interno del clan. La capacità di insegnare che non si ritrova anche nelle specie che più a lungo accudiscono i propri piccoli, lasciando però che l’educazione sia affidata esclusivamente all’imitazione dei grandi. Infine la tendenza a parlare ancor più che ad ascoltare (è vulgata che ci siano più scrittori – in Italia, ma probabilmente non solo – che lettori) che fa si che l’essere umano cerchi sempre occasioni sociali per raccontare (mentre le scimmie comunicano esclusivamente informazioni essenziali, come la presenza di cibo o di predatori, mentre la comunicazione per molte altre specie ha esclusivamente una funzione di richiamo sessuale) e parlare.
Collaborazione, educazione, narrazione sono dunque le tre caratteristiche che devono essere poste alla base dell’antropologia. Spesso qualcuna delle tre viene sottovalutata mentre sono i tre anelli reciprocamente collegati che ci definiscono come specie. Deve evidentemente partire da questa consapevolezza la riflessione non solo filosofica, ma anche politica ed ecologica che ci impedisca di autodistruggerci.
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