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Esser-ci: isolato o sociale?

Ho appena completata la lettura di Heidegger e Michelstaedter. Un’inchiesta filosofica di Thomas Vašek (caporedattore austriaco della rivista di filosofia Hohe Luft), libro pubblicato in italiano l’anno scorso da Mimesis Edizioni. Nella sua inchiesta, Vašek fa una accurata comparazione tra La persuasione e la rettorica – tesi di laurea di Carlo Michelstaedter, completata nel 1910 prima di suicidarsi e pubblicata per la prima volta nel 1913 – ed Essere e tempo di Martin Heidegger, pubblicato nel 1927. Per Vašek, per quanto non ci siano prove a supporto, è plausibile che Heidegger abbia potuto esaminare una bozza dattiloscritta della traduzione in tedesco dell’opera michelstaedteriana (considerando che il relatore della tesi, Girolamo Vitelli, era membro dell’Accademia delle Scienze di Gottinga assieme a Oskar Ewald, a sua volta conoscente di Husserl, di cui Heidegger era assistente). Se mancano prove dirette, Vašek mostra in maniera dettagliata come la trattazione filosofica in Essere e tempo possa essere ricondotta fedelmente alle intuizioni e riflessioni michelstaedteriane. Il corposo volume è completamente dedicato a dettagliarlo e dimostrarlo, ma alla conclusione dello stesso Vašek riporta una comoda tabella di concordanze dove sono presentati i concetti nella terminologia usata dal filosofo goriziano accoppiati a quelli nella ben più elaborata e precisa terminologia heideggeriana.

In realtà non voglio però qui tanto parlare del libro quanto proporre alcune riflessioni suscitatemi dalla sua lettura. Riporto qui due passi dal testo in cui Vašek mostra due elementi distintivi della comunanza della riflessione dei due filosofi:


Ma che cosa è questa “luce” che illumina per noi le cose? Heidegger e Michelstaedter danno sostanzialmente la stessa risposta. La “luce” è la nostra stessa esistenza finita. Non è una comprensione teoretica. Ciò che rischiara il nostro esserci è la cura per il nostro essere. Noi stessi siamo la “radura”. Senza di noi non c’è alcun significato, alcun mondo. (posizione 2554 di 9225)


Noi esistiamo anche con altre persone. Ma “autenticamente” siamo radicalmente isolati, completamente da soli. Né per Heidegger, né per Michelstaedter le relazioni con gli altri giocano un vero ruolo. (posizione 7354 di 9225)


Per Michelstaedter ed Heidegger dunque noi conosciamo le cose in quanto esse sono illuminate dalla nostra esistenza. Cosa significa? Possiamo conoscere solo ciò che ci è “utile” (in senso il più possibile ampio). In questo senso anche l’opera d’arte, pur non rientrando nella convenzionale categoria dell’utile, possiamo considerare utile in quanto è utile al nostro piacere, al nostro appagamento artistico e o culturale. “Utile” in questo contesto significa tutto quanto riguarda direttamente o indirettamente, concretamente o potenzialmente, la nostra esistenza umana. Ad esempio quale l’“utilità” per l’esistenza umana del conoscere i meccanismi che portano all’innesco di un “buco nero” nelle profondità del cosmo? Questi meccanismi si inseriscono in quelli più ampi del funzionamento dell’universo che ci circonda, e da cui possiamo ottenere strumenti per migliorare ad esempio la produzione dell’energia. Quale l’utilità dello studio dei fossili dei dinosauri? L’evoluzione e la successiva scomparsa dei dinosauri contribuisce a spiegarci i meccanismi dell’evoluzione e dei mutamenti climatici del nostro pianeta.

In realtà Heidegger, parlando della cosa che conosciamo, utilizza l’esempio del martello. Il martello è un oggetto che conosciamo in quanto lo utilizziamo quando ci serve per martellare qualcosa: un chiodo per appendere un quadro, piuttosto che un guscio di noce per mangiarne il gheriglio.

Tempo fa discutevo con Antonio Bianchi di simboli e di come il cervello li utilizza. A questo proposito osservavo, facendo un parallelo tra la rappresentazione di una immagine nel cervello e in un elaboratore elettronico, che né il computer né il nostro cervello sanno cos'è una immagine. E per certi versi è molto più semplice capire come si possa passare da un set di istruzioni in un pc alla produzione sullo schermo di un'immagine piuttosto che da una serie di impulsi elettrici nei neuroni in un cervello ad un'immagine nella coscienza. Per Heidegger noi conosciamo le cose in quanto e per quanto ci sono utili. In questo senso il simbolo è la matrice, all'interno della nostra conoscenza, per un determinato concetto a cui solo quel concetto si adatta. Riallacciandoci alle idee platoniche, il simbolo è l’idea originaria che ci serve per riconoscere gli oggetti e che (per esempio) mi consente di riconoscere un asino da un cavallo, un gatto da una tigre, un tavolo da una sedia, ecc. E, anche qui, c'è l'analogia con i sistemi elettronici che utilizzano una versione elettronica di idea platonica per il riconoscimento degli oggetti (ad esempio nei sistemi di guida automatica per "capire" se un pedone sta attraversando la strada al veicolo). Il simbolo, in questo senso, deve incarnare/riallacciarsi alla quintessenzialità dell'oggetto o del concetto che raffigura. In un certo senso se riuscissimo a concretizzare figurativamente il sistema di matrici che costituisce la nostra conoscenza del mondo avremmo trovato la lingua universale.

Per ritornare all’inchiesta di Vašek, l’esserci è il mancante che utilizza i propri deficit per modellare il mondo. Ho bisogno di piantare il chiodo? Invento il martello. Che all’inizio è solo un oggetto (una pietra, un osso, un bastone) sufficientemente duro e robusto per sopportare l’operazione del martellare. In seguito l’attrezzo si raffina e si perfeziona ottenendo una forma che si adatti il più perfettamente possibile all’azione/funzione che deve svolgere. La conoscenza dunque è un sistema di matrici che ci consente di creare un mondo di oggetti (ma anche di concetti astratti) che svolgono una funzione (ovviamente sia positiva che distruttrice) che in modo diretto o indiretto ci riguarda.

Il problema però a questo punto è che la conoscenza come sistema di matrici legato alle esigenze che crea il mondo a misura delle necessità umane non è una specificità umana. La stessa cosa si può infatti dire per ogni specie vivente che conosce e modifica il proprio ambiente in base alle proprie esigenze di sopravvivenza. La creazione di strumenti per agire sul mondo non è un’esclusiva umana e, in grado più o meno avanzato, tutte le specie viventi utilizzano tale strategia. La varietà e complessità degli strumenti ideati ed utilizzati dalla specie umana non è perciò una caratteristica specifica ma piuttosto una differenza – per quanto enorme – di grado.

Ed arriviamo qui alla seconda citazione dal libro di Vašek, quella secondo cui sia per Michelstaedter sia per Heidegger, l’esistenza umana è eminentemente isolata, individuale, solitaria. Indubbiamente il modello di rappresentazione del mondo è un modello individuale. Ognuno di noi – esseri viventi – ricrea il mondo nella propria coscienza interpretando i segnali elettrici che le terminazioni nervose inviano al nostro cervello dando all’immagine finale una configurazione che sia significativa ed utilizzabile ai fini della nostra sopravvivenza. Ognuno di noi crea il mondo ai fini della sua conoscibilità per noi. La stessa cosa ovviamente avviene per i nostri simili che sono da noi ricreati con il perenne dubbio che la persona che abbiamo di fronte sia quello che effettivamente conosciamo piuttosto che una nostra mera costruzione ideale. Questo in effetti giustifica la sensazione di isolamento. Ma per aggirare questo ostacolo la specie umana ha “inventato” qualcosa che costituisce effettivamente il salto evolutivo rispetto agli altri esseri viventi: il linguaggio. Intendiamoci: tutti gli esseri viventi utilizzano forme di comunicazione anche estremamente complesse (pensiamo al canto degli uccelli o al volo delle api), ma si tratta di forme di comunicazione sviluppate per offrire informazioni precise al proprio nucleo sociale. Al contrario la specie umana ha sviluppato un sistema di comunicazione estremamente duttile ed in grado di estrema astrazione che consente ai singoli individui di condividere la rappresentazione individuale del mondo anche al di là di istruzioni riguardanti l’immediata sopravvivenza. Ne ho parlato qui presentando il libro L’alba del linguaggio. Come e perché i Sapiens hanno iniziato a parlare (Ponte alle Grazie, 2021) del fisico e linguista svedese Sverker Johansson. L’autore nel suo libro spiega in maniera dettagliata e convincente le “motivazioni” che hanno spinto la specie umana alla creazione del linguaggio:

  • la mutua fiducia e la disponibilità alla cooperazione;

  • la capacità di insegnare positivamente ai cuccioli;

  • la passione per lo “storytelling” (che sia narrazione o chiacchiera anche malevola non ha molta importanza; Johansson chiama questa attività: “fare salotto”).

Grazie al linguaggio possiamo comunicare non solo l’avvicinarsi di un pericolo, la disponibilità all’accoppiamento o al conflitto, l’ubicazione delle risorse – quindi informazioni utili qui-ed-ora a componenti del mio gruppo sociale – ma concetti più elaborati, astratti ed esulanti dalle necessità immediate e particolari. Nessun altro essere vivente al di fuori della specie umana sparla dei vicini o s’inventa storie su persone mai esistite. Il linguaggio stesso ovviamente ha origine in una matrice di debolezza. Sempre Johansson spiega bene come la specie umana, rispetto ai progenitori più vicini, avesse numerosi svantaggi fisiologici: la stazione eretta costringe il bacino femminile a dimensioni minori con conseguenti parti più difficili, il periodo di maturazione più lungo dei cuccioli, una dimensione meno territoriale e maggiormente legata agli spostamenti delle tribù. A questi svantaggi la specie umana ha risposto con uno strumento eminentemente sociale, il linguaggio appunto, che rafforzasse lo scambio sociale non esclusivamente limitato all’interno del circolo ristretto dei conviventi, ma che potesse essere generalizzato e tramandato.

Per questo la frase che descrive l’impostazione a proposito di Michelstaedter ed Heidegger va esattamente ribaltata: non siamo mai né isolati né completamente soli, al contrario ogni nostra idea, concetto ed azione è legata direttamente o indirettamente alle idee, concetti ed azioni degli altri esseri umani ed è immancabilmente condizionata da esse. Il nostro stesso esserci è possibile solo per la cura che non solo gli altri esseri umani del gruppo sociale ristretto ci hanno prestato ma anche pur tutta la tradizione di idee, concetti e azioni che storicamente il gruppo sociale di cui facciamo parte ha ricevuto in eredità. Per dire: La persuasione e la rettorica o Essere e tempo non sarebbero concepibili senza la tradizione filosofica che va dai pensatori greci all’idealismo. Ed addirittura Essere e tempo, nonostante si stagli a vetta del pensiero del Novecento, come dimostra egregiamente Vašek, non sarebbe possibile senza il libro del filosofo goriziano o, almeno, senza quelle stesse idee e quella stessa congerie culturale, che lo hanno prodotto. Questo chiaramente apre un altro problema: quanto di ciò che facciamo è originale, cioè frutto della nostra creatività individuale, e quanto invece legato all’ambiente sociale e culturale in cui viviamo?




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