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Expect more: Salarelli e Ferrieri (per non parlar di Lankes)

 Nell’ultimo numero di AIB Studi (v. 60, n. 3, 2020) è possibile leggere una riflessione di Alberto Salarelli (professore associato di Bibliografia e Biblioteconomia e di Documentazione digitale presso il Dipartimento Lettere, Arti, Storia e Società dell’Università degli Studi di Parma) sull’ultimo libro di Luca Ferrieri: La biblioteca che verrà: pubblica, aperta, sociale (Bibliografica, 2020). L’articolo di Salarelli, Tutte le passioni non spente di un bibliotecario: considerazioni attorno a La biblioteca che verrà di Luca Ferrieri, è disponibile in open access sul sito di AIB Studi. In esso Salarelli fornisce un giudizio ambivalente del libro di Ferrieri: rimarca positivamente la prospettiva di lungo periodo, il rifiuto di porsi in un’ottica falsamente neutrale e l’espressa esigenza di una fondazione teorica della disciplina biblioteconomica, ma ne critica l’impostazione “attivistica” contro la forma attuale della biblioteca pubblica come istituzione. Fin troppo facile l’ironia salarelliana sull’ipertrofia dell’apparato di note di Ferrieri, sul suo deliziarsi nell’utilizzo di termini e di costruzioni ermetici e desueti. Del resto anch’io, all’epoca della pubblicazione del suo La lettura spiegata a chi non legge (Bibliografica, 2011) ebbi l’impertinenza di definirlo “aristocomunista”. La critica là però era relativa all’atteggiamento (di superiorità) nei confronti dei non lettori (di libri). Salarelli invece dileggia, a volte in maniera un po’ irritante, l’utilizzo di termini e frasi ricercate che dovrebbe essere lui, da professore universitario, il primo ad apprezzare ed a spiegare a noi poveri bibliotecari qualunque. Ma non è questo il punto. Il punto è la difesa di Salarelli dell’istituzione della biblioteca a fronte dell’incitamento di Ferrieri ad essere aperta e sociale, pena altrimenti l’inessenzialità e l’estinzione. Per certi versi la difesa di Salarelli dell’istituzionalità della biblioteca è comprensibile e per certi versi condivisibile: la biblioteca non è comunque uno strumento attraverso cui l’amministrazione pubblica garantisce l’informazione, la documentazione, la promozione della cultura, il life long learning a tutti i cittadini? E però. Esattamente come nelle perorazioni di Barbero (ampiamente dibattute in AIB-CUR) si ha la sgradevole impressione che la difesa di Salarelli dell’istituzionalità bibliotecaria vada principalmente a favore dei privilegi assegnati al corpo docente e, in generale, agli studiosi. Come contemperare, egli infatti rimarca, le esigenze del lettore forte con quelle dell’homeless nello stesso spazio? Che poi, al di fuori della individuazione eccessiva ed eccezionale, potremmo infatti dire: come soddisfare assieme e nello stesso spazio lo studioso bisognoso di silenzio e concentrazione col chiasso dei gamer, piuttosto che col cicaleccio degli utenti che commentano le notizie dei giornali, con le iniziative di lettura animata, con i corsi, con i reading, con i concerti? Lo spazio e il tempo del lettore forte e dello studioso all’interno della biblioteca non vengono forse compressi e condizionati da tutte le varie iniziative che già ora ci sono nella biblioteca? Questa impostazione elitaria (e irrisoria nei confronti di Ferrieri) si scopre platealmente quando Salarelli cita l’episodio dei tornelli nella biblioteca universitaria bolognese:


E, a proposito di apertura radicale, mi chiedo se un'affermazione come la seguente


la biblioteca ha certamente addomesticato i suoi ingressi, ma poco lontano restano i pannelli dell'antitaccheggio o i tornelli, a ribadire un ordine che, tra l'altro, avvicina i luoghi del sapere ai nonluoghi commerciali o addirittura a quelli detentivi e segreganti (p. 134)


non possa suonare come un'attenuante, seppur blanda, nei confronti dei sediziosi giovanotti che i tornelli distruggono, come avvenuto a Bologna tre anni addietro. Quegli utenti erano, in fondo in fondo, solo compagni che sbagliavano?


Fastidiosamente Salarelli utilizza qui solo una versione (quella istituzionale appunto) dell’accaduto ignorando che esiste pure la versione secondo la quale a creare i maggiori danni furono proprio le forze dell’ordine durante l’irruzione richiesta dall’Università per ripristinare la legalità e i tornelli, semplicemente disabilitati dai compagni che magari sbagliavano, ma che, come ci insegnano gli avvocati divorzisti il torto non si trova mai da una parte sola, forse avevano dalla loro pure qualche ragione che magari poteva trovare diversa interlocuzione e mediazione. E qui arriva il punto dell’incomprensione salarelliana delle proposte di Ferrieri. Salarelli si ferma alla contrapposizione tra biblioteca per tutti (quella attuale) e quella (auspicata) per ciascuno, contestando che la “personalizzazione” possa in realtà minare la “pubblicità” della biblioteca che pure Ferrieri rimarca fin dal sottotitolo. Al contrario tutti e ciascuno sono all’interno della proposta di Ferrieri termini antitetici che vanno superati nella sintesi della comunità. Scrive infatti:


L’elemento della solidarietà comunitaria, infatti, non è un elemento accessorio ma costitutivo della concezione della public library. Per questo l’arretramento o il fallimento su questo terreno assume un peso emblematico, mette in crisi tutto il sistema. Ci sono stati, nella storia delle biblioteche degli ultimi secoli, e anche di recente, molti momenti in cui le biblioteche si sono dimostrate parte integrante della comunità e in cui una comunità intera si è raccolta intorno alla biblioteca. Ma ciò è quasi sempre avvenuto come atto difensivo, come unione di fronte al pericolo. Necessario, ma non sufficiente, visto che in realtà è venuta meno, troppe volte, la capacità, da parte della biblioteca, di interpretare e rappresentare la comunità. E di battersi nella comunità, per la comunità. (p. 19)


Il legame tra biblioteca e democrazia, orgogliosamente esibito dalla public library, salvo piegarsi ad ogni politica classista e segregazionista quando i rapporti di forza lo imponevano, entra in crisi. Il riferimento delle nuove biblioteche è sempre più la comunità, e il concetto di democrazia a cui si ispirano è più simile a quello insorgente, di cui parla Miguel Abensour nel 2014, che a quello istituzionale di cui parlava Virginia Carini Dainotti nel 1964. (p. 45)


...il mondo del comune (inteso cioè come mondo dei beni comuni, ma con una accezione più ampia) che costituisce l’habitat della biblioteca e delle sue prime, naturali, manifestazioni politiche. Il comune infatti – dice François Jullien – ha una sua primaria “dimensione politica: il comune è ciò che si condivide”. Infatti il mondo del comune si presenta, spesso in modo oppositivo e sfidante, come un’alternativa alla dicotomia pubblico/privato su cui è cresciuta l’ideologia e la propaganda neoliberista di fine secolo. L’introduzione di una terza categoria, che è economica ma anche culturale, non rappresenta certo un abbandono o un’abiura della natura pubblica della biblioteca, di cui abbiamo parlato all’inizio…, ma una nuova configurazione di questa complessa relazione… (p. 65)


All’epoca in cui ho letto questi passi, complice la lettura in parallelo del contemporaneo lankesiano Biblioteche innovative in un mondo che cambia (Bibliografica, 2020), li ho messi a confronto esclusivamente con la visione lankesiana (nei commenti postati qui). Correttamente forse, ma in modo troppo parziale e senza porre la dovuta attenzione al concetto di “comunità”. Il concetto, il valore di comunità (che Salarelli non vede) mi sembra debba essere rintracciato nell’orizzonte pratico e teorico posto dal confederalismo democratico. E del resto è quello che maggiormente paventa Salarelli, che infatti scrive:


Purtroppo, seguendo i precetti delle suggestioni postmoderne, la rinuncia al concetto di identità può essere sì liberatoria ma, d'altro canto, ci si può ritrovare senza alcuna bussola per potersi orientare, per capire dove si debba andare. Ci basterà sedersi in circolo a conversare con gli utenti per decidere il da farsi?


Forse è esattamente qui che Ferrieri e Lankes si allineano perfettamente. Il concetto di comunità (conversante) in grado di prendere decisioni (politica) anche e non solo sulla biblioteca, che crea conoscenza non (solo) tramite lo studio solitario e silenzioso e la produzione di tesi e saggi degli studiosi (e della relativa sottocategoria degli studenti) ma (soprattutto) anche tramite il confronto e la discussione. In tutto questo il bibliotecario deve farsi propositivo mediatore perché anche se forse le biblioteche (come asserito da Salarelli in conclusione del suo scritto) vengono “prima” dei bibliotecari e dei libri, ancor prima delle biblioteche viene la lettura, che non può essere limitata alla “semplice” attività di decodificare un testo scritto ma deve ambire alla capacità di decodificare la blumenberghiana leggibilità del mondo. In questo contesto leggere è apprendere (una lingua, uno strumento, un’abilità), giocare (didattica ludica), fruire uno qualsiasi della molteplicità mediale che sempre più è ospitata dalla biblioteca. In questo senso va “letta” l’insistenza ferrieriana sull’importanza della lettura che integra e perfeziona il modello lankesiano. Non posso infatti che dissentire in maniera ferma e completa dalla condanna di Salarelli alla “concezione lankesiana che una stanza con dentro un bibliotecario possa essere definita come una biblioteca”:


Seppur interpretabile con l'attenuante della provocatorietà (che però non dissipa quella sensazione ovunque serpeggiante negli scritti del guru di voler lisciare il pelo ai bibliotecari per convincerli che la loro professione è la più bella del mondo e che essi sono imprescindibili per le sorti della società del futuro... expect more, caro bibliotecario, te lo meriti, ne hai diritto), l'affermazione di Lankes è una scempiaggine che non tiene conto dell'evoluzione storica delle biblioteche (forse perdonabile) e delle aspettative che gli utenti attuali nutrono nei confronti delle biblioteche (del tutto imperdonabile)


Non solo non si tratta di una scempiaggine, ma l’immagine, perfezionata dalla competenza del bibliotecario nel promuovere la lettura come capacità di decodificazione universale (perché tutto è o può essere informazione, ancor prima che ridianamente documento) perché la comunità che la biblioteca deve essere (non limitandosi quindi alle mura del singolo edificio ma identificandosi invece in un servizio sempre più in rete con altri, bibliotecari/archivistici/museali, ma anche sociali, educativi ma non solo). E la dimostrazione di questa affinità qui tra Ferrieri e Lankes e della sbadata incomprensione di Salarelli è esattamente in quell’expect more che non è volto come crede a lisciare il pelo ai bibliotecari, ma piuttosto l’esatto opposto: a rispondere con sempre maggior prontezza, flessibilità e completezza alle esigenze dei membri della comunità che Lankes incita appunto a non autoridursi, ma invece ad aumentare. Per quanto il libro di Lankes a cui Salarelli si riferisce (disponibile gratuitamente in inglese ed in formato digitale qui) sia stato pubblicato nell’edizione italiana in una collana rivolta principalmente all’aggiornamento professionale dei bibliotecari, Lankes lo scrive dedicandolo, non solo idealmente, agli utenti delle biblioteche (e proprio un docente universitario non dovrebbe citare testi che non ha letto). Nella mia presentazione del libro sul Manifesto del 16/06/2020 scrivevo che, nel libro, “Lankes sembra riprendere la famosa tesi su Feuerbach dove Marx incita a trasformare il mondo che i filosofi si sono limitati a interpretare”: ora approfondisco quel paragone affermando che i bibliotecari devono, piuttosto che preoccuparsi dell’ordine dei libri o dell’efficacia e precisione di una descrizione, contribuire a trasformare il mondo mettendo a disposizione dei membri della comunità gli strumenti e le competenze per leggere (libri, film, giochi e videogiochi, trasmissioni televisive, discorsi dei politici, degli scienziati, degli economisti, il mondo che li circonda…). Ovviamente per leggere serve anche che i libri siano in ordine e le descrizioni bibliografiche precise, ma quelli sono sempre più compiti che possiamo lasciare all’automazione…

POST SCRIPTUM:



David Lankes (che ringrazio per l'attenzione e la continua disponibilità) ieri sera mi ha subito inviato tramite Twitter la precisazione che la sua frase ripresa da Salarelli ha subito una riflessione e un'evoluzione nel capitolo 10 del New Librarianship Field Guide (non ancora tradotto in italiano) o nel materiale presente sul suo sito. Pur non ritenendo che tale evoluzione modificherà l'opinione dei critici, mi ha segnalato che la formulazione attuale è: "una stanza piena di libri è un armadio mentre una stanza vuota con un bibliotecario che in essa presta un servizio alla propria comunità è una biblioteca". Se Bibliografica non si decide di tradurre il libro di Lankes tocchorà di leggerlo in inglese...





 

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