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Perché non possiamo non essere mazdei oggi



 Sono svariati i motivi per cui mi sono interessato al mazdaismo: tutto parte naturalmente dall’interesse per Philip K. Dick che ne riprende il presunto manicheismo (per altro un elemento assunto anche nel cristianesimo), in particolare nell’Esegesi, e per Nietzsche (il cui Così parlò Zarathustra è uno dei primi testi di filosofia letti al di fuori delle prescrizioni scolastiche), ma si ricollega all’interesse ed allo studio per l’esperienza teorica e storica del confederalismo democratico curdo in Rojava in cui trovano rifugio le popolazioni mazdee superstiti alle persecuzioni da parte dei fondamentalisti islamici, a cui certo non fa da scudo il fatto che la religione mazdea è contraria al proselitismo attivo (a differenza ovviamente sia del cristianesimo sia dell’islamismo, che hanno promosso la propria diffusione sulla punta delle armi).

La lettura del testo sacro del mazdeismo, l’Avestā (nell’edizione UTET del 2013 – a sua volta riedizione dell’originale del 1974 – a cura di Arnaldo Alberti) ha in effetti portato in luce elementi di riflessione molto interessanti. Intanto occorre rilevare come il mazdaismo sia la prima religione monoteistica, sorta oltre un millennio prima della nascita di Cristo, e la cui influenza enorme in tutto il Medio Oriente ha inciso anche sulla cultura greca e su quella ebraica, formando una corrente sotterranea che scorre e lega le tre grandi fedi monoteistiche ad essa successive. Il mazdaismo ha caratteristiche che per certi versi lo legano molto bene a tre temi emergenti nella società contemporanea: il pacifismo, la parità di genere e il rispetto e la cura per l’ambiente (per altro la sua ossessiva attenzione ad evitare l’impurità produce pagine assolutamente violente e velenose nei confronti dell’omosessualità).

Ecco cosa scrive Alberti nella sua approfondita introduzione:

...la religione mazdea insegna ad adorare un solo dio, chiamato Ahura Mazdā [Signore che crea con il pensiero], e non Zarathuštra, che ne è il Profeta, e come tale oggetto solo di venerazione [questo per criticare l’appellativo “zoroastrismo” per la religione mazdea: è come se l’islamismo venisse bollato come “maomettismo”; caso diverso invece per il cristianesimo, dato che Gesù Cristo è componente della divinità]. Diciamo non a caso "un solo dio", perché secondo il pensiero mazdeo tutte le religioni sono eguali in dignità e grandezza e ognuna chiama il proprio dio a proprio modo. Per questo la religione mazdea non fa proselitismo, poiché ogni conversione da una religione a un'altra presuppone che dio non sia unico e una religione sia superiore ad altre. [p. 13]

Questo passaggio è precorritrice radicale del dialogo interreligioso promosso negli ultimi anni e in qualche modo propugnatore di un sincretismo religioso che si faccia carico del bisogno religioso dell’essere umano senza per questo produrre divisioni ed innescare occasioni di utilizzare la religione come pretesto per guerre e genocidi.

Un giorno (e il profeta Zarathuštra dice anche quando) arriverà l’ultimo Saošyant a rinnovare il mondo, in quello che sarà un esaltante e tremendo evento, chiamato frašō-keretay(“fatto con abilità”, scilicet la riorganizzazione dell’umanità alla fine dei tempi), e perciò l’ultimo dei Saošyant è detto frašō-čaretar , “il riorganizzatore, il rinnovatore del mondo” (si veda lo Yašt 13.17). Allora, il Saošyant e tutti gli uomini sottostaranno al giudizio finale e solo dopo di ciò essi diverranno immortali. Il Male sarà definitivamente sconfitto e la Morte ritonerà ad essere Vita perenne. Le gāthā ricordano ai fedeli le antiche concezioni degli Arii a riguardo del paradiso, dell’inferno e dell’ultimo dei Saošyant. Questi dovrà nascere da una vergine, imprimere a tutti il battesimo di fuoco, sconfiggere in modo definitivo il Male, far risorgere i morti e procedere al Giudizio finale che assegnerà a ogni uomo, secondo i meriti, un posto in Paradiso. [p. 36]

Evidente qui l’influenza mazdea sul cristianesimo, sull’origine “pura” di Gesù Cristo (nato dalla Vergine e che battezza con lo Spirito Santo) considerato millenaristicamente dai suoi apostoli e discepoli come la fine della storia e preludio all’avvento del Regno di Dio. Il fatto che l’Apocalisse non sia (immediatamente) giunta ha fatto immaginare a Philip Dick che in realtà la storia non sia mai davvero proseguita ma che l’Impero abbia calato un universo (e soprattutto un tempo) illusorio al cui risveglio ci ri-troveremo all’epoca di Gesù finalmente al cospetto del Regno di Dio.

Noi vediamo, invece, nell’Avestā la presenza del più puro, logico, consequenziale monoteismo, almeno nel mazdaismo zarathuštriano (non parliamo delle successive degenerazioni). Alla radice del Mazdaismo c’è solo Mazdā, Dio unico, creatore del Bene e del Male. Se davvero si vuole parlare di dualismo nel Mazdaismo originario, allora si dovrebbe fare la stessa distinzione (dualismo e tico e dualismo teologico) anche, per esempio, nel Cristianesimo dove l’esistenza umana è anche qui concepita come una lotta senza quartiere tra due poteri spirituali contrapposti. Non a caso Gesù appena battezzato e riconosciuto figlio di Dio (Matteo, 3.17) viene subito condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal Signore del Male, il quale, in un crescendo di allettanti, inutili proposte, promette alla fine a Gesù, in cambio di un’adorazione, il dominio su tutti i regni di questo mondo, ponendosi così in una palese incongruenza: esige di essere adorato, ma capisce bene che solo con ciò egli potrebbe essere proclamato signore di quei mondi, di cui promette a Gesù il dominio. Il Signore del Male esordisce, quindi, con una proposta, la cui debolezza si può già intuire in parte dalla pluralità dell’offerta fatta in successione, dove la seconda già scredita l’offerente e annulla la forza e il valore dell’ultimo rilancio, quasi come se il Demonio mettesse nel conto di potere o dover essere rifiutato da Colui, che egli sa aver creato lui e con lui anche il Male. Nell’Evangelo di Marco, peraltro, la tentazione avviene addirittura nello stesso paragrafo del battesimo (1.11 e 1.12), quasi si trattasse di una cerimonia consequenziale e complementare. Già al verso 1.23, Gesù incontra un indemoniato e in quest’occasione (dopo però aver scelto i suoi primi discepoli) compie il Suo primo miracolo, in realtà – e forse non casualmente – un esorcismo, una esplicita paradigmatica vittoria sul Male e sullo Spirito Maligno. Il tutto vuole significare che la tentazione è una propedeutica all’iniziazione al Bene, l’incontro necessario della tesi con la sua antitesi per giungere a una sintesi spiritualmente superiore. [p. 53-54]

Questo parallelismo tra mazdaismo e cristianesimo sul tema del manicheismo ovvero sull’essere in bilico su una concezione “paritaria” dei principi del Bene e del Male, che nel mazdaismo originario, così come nel cattolicesimo teologicamente ortodosso, è negato ma che in qualche modo rispunta sempre nella concezione e nella predicazione popolare mi riporta ad un contesto invece in cui mazdaismo e cristianesimo si differenziano ed in questo caso con una posizione decisamente più avanzata da parte del cristianesimo. Parlando dei miracoli di Gesù, uno di quelli più presenti e commentati dalla liturgia è quello della guarigione dei lebbrosi. La lebbra come sintomo dell’impurità (più volte ripreso nei Vangeli) da cui Gesù libera per mezzo dei miracoli richiama la lettura dell’Avesta in cui appunto la malattia è il segno e la conseguenza dell’impurità, dell’essersi lasciato coinvolgere da parte del malato/impuro a pensieri/parole/azioni in contrasto con il retto comportamento così come trasmesso agli uomini da Ahura Mazda per tramite di Zarathustra. Ma quello che mi ha particolarmente colpito è che, segno di impurità e peccato, nella religione mazdea, è non solo la malattia, ma anche la morte. E questo è un elemento che la accomuna non al cristianesimo, ma piuttosto al taoismo. Per i taoisti, se il saggio si applica nella “non azione” (il “wu wei”, che non è banalmente il non agire di fronte ad una situazione, ma piuttosto l’aver raffinato a tal punto le proprie capacità, l’aver reso così perfetta la propria azione, da non aver bisogno d’utilizzarla) e in rigorosi regimi alimentari e sessuali, semplicemente non viene intaccato dallo scorrere del tempo. Però per il taoismo il saggio immortale è qualcosa di simile al diamante: talmente puro da non offrire nessun fianco alla corruzione. Per il mazdeo al contrario la corruzione dell’uomo è in qualche modo inevitabile, perché fino all’arrivo del terzo Saosyant che purificherà tutto il mondo dal male, Angra Mainyu (il principio del male) non può non bilanciare il principio positivo, Spenta Mainyu. Per quanto imperfetto nei sensi e nelle emozioni, l’essere umano può però rivolgersi alla divinità, interrogarla, offrirle sacrifici (che la divinità accetterà non per la loro sontuosità ma per quanto siano degni d’essere esaudite le suppliche che li accompagnano) e farsi rivelare la retta via. Per quanto la visione mazdea sia maggiormente vicina al tormento umano dell’essere sempre lacerato tra la volontà del bene e la tentazione del male, essa non conosce la vera rivoluzione cristiana: la “pietas”, il farsi incontro all’altro, all’impuro, all’imperfetto, al peccatore, al malvagio, perché comunque anch’esso essere umano ed in quanto tale comunque degno del perdono divino. Certo, come visto sopra e come vedremo più avanti, il giudizio di Ahura Mazda recupera anche gli esseri umani che hanno commesso azioni impure e si sono allontanati dal mantra “buoni pensieri, buone parole, buone azioni” ma appunto come giudizio finale, come palingenesi del mondo alla fine della storia: al contrario fondamentale della pietas è l’azione all’interno della storia: il soccorrere hic et nunc il bisognoso che è sempre azione buona ed in quanto tale incorruttibile, anzi è essa stessa che genera purezza, purifica quanto di corrotto viene a contatto con essa. Al contrario la religione mazdea ha il terrore della contaminazione da parte dell’impuro e non è un caso che buona parte dei capitoli “datici” (quelli che esprimono gli obblighi e le proibizioni, con relative sanzioni, a cui si deve attenere il fedele) sia riservata a come comportarsi con i cadaveri che, avendo perso lo spirito uscito dal corpo con la morte, vengono invasi dallo spirito impuro che rischia non solo di contaminare chi venga a contatto con essi, ma pure l’acqua e il fuoco (considerati sacri) e la terra come mezzo utilizzato dall’acqua per portare la vita. E le punizioni per non gestire correttamente i cadaveri sono più severe di quelle comminate ad esempio a chi ferisca o uccida un altro essere umano. In realtà anche perché non è un uomo ad uccidere un altro: la morte è causata non dall’arma (chiarissimo al proposito le pagine dove Ahura Mazda spiega a Zarathustra che né l’acqua né il fuoco possono uccidere una persona, ma solo gli spiriti maligni) ma dalla corruzione causata dai daeva, gli spiriti maligni, che riescono a raggiungere il soccombente in quanto ha evidentemente mancato in qualcuno dei rituali prescritti.

...l’Avestā mostri bene che tra l’attività dello spirito e il reale esiste uno stretto rapporto generativo, e che è dalla creatività dello spirito che scaturisce la realtà, cui l’uomo conforma le sue azioni. Sono evidenziabili nelle sacre scritture mazdee posizioni filosofiche improntate a principi idealistici, i quali – pare sempre più certo – hanno influito non poco sulla stessa nascita del pensiero greco e in particolare della speculazione sulle idee di Platone. Secondo l’insegnamento avestico, nell’uomo come nel creato avviene tutto conformemente a un modello superiore, dove il creatore d’ogni cosa, Mazdā, crea con il pensiero, poiché questo è il vero, letterale significato del nome divino (Yazna 51). […] Ahura non solo è sapiente, non solo è onnisciente, ma è egli stesso il sapere (Yazna 31 6-7) e crea (“costruisce” dice l’Avestā con termine edile) concretamente con il pensiero. Il suo nome è la sua stessa essenza: non è un predicativo ma un nome ontico, così come sua essenza sono le ipostasi, metafisiche e nel contempo concrete, attraverso le quali egli si manifesta, come avviene, per esempio, per mezzo degli spenta (cfr. Yašt 13, 81) o degli yazata. Insomma, saggi possono essere chiamate persone come Confucio, Lao-tse, Buddha o lo stesso Zarathuštra, i quali hanno acquisito saggezza e sapienza dal conoscere progressivo o magari grazie a illuminazioni divine, non certo Mazdā, il quale è la Saggezza, è il Sapere e ogni altra attività creatrice del pensiero. [p. 54-55]

...Ahura Mazdā è puro spirito e i suoi principali attributi sono: eternità, verità, bontà, maestà, potenza e sapienza, ma questa ha una connotazione, a differenza delle altre quattro grandi visioni monoteistiche di dio, decisamente più filosofica. Il paradigma intellettivo “umano” della definizione di Ahura Mazdā risulta: scopo della mente è la creazione di pensieri che siano però assistiti dalla verità (Aša), pensieri trasparenti, che non lascino alcun residuo di dubbio o incertezza (l’opposto della fede) e che siano liberi, indipendenti. Ovvero non dipendano da altri pensieri che dovrebbero essere accertati nella loro veridicità. La forma del pensiero vero (idea sul piano filosofico, daēnā sul piano spirituale e teologico) esiste da sempre presso dio, la mente umana però possiede una verità eidetica (urvan) sul piano spirituale o teologico, che il pensiero deve fare certa proprio attraverso un percorso filosofico, che è un procedimento dialettico, di continue scelte tra un’offerta corretta, giusta e una – mediamente più facile e comoda – sbagliata e ingiusta. Detto in questo modo il pensiero filosofico dell’Avestā non sembrerebbe molto lontano da quello di un sistema dialettico-idealistico. [p. 64]

Molto interessante questo collegamento all’idealismo (non solo platonico) e alla dialettica. Soprattutto interessante il porsi della divinità non come un’alterità, un essere che si nasconde alle richieste umane. Nelle religioni monoteistiche successive la divinità si rapporta all’uomo quasi esclusivamente con rivelazioni, annunciazioni, consegna di leggi. Col cristianesimo l’atteggiamento cambia solo perché viene inviato un essere che contemporaneamente ha la duplice natura umana e divina a mediare tra uomo e Dio. Ahura Mazda al contrario esprime quasi ansia di dialogare con l’essere umano, a patto che l’essere umano ponga le domande appropriate. Leggiamo in questo caso direttamente dall’Avesta:

Così rispose Ahura Mazda: "Il mio nome è Ahmi [Io sono]. Io sono l'Interrogabile, colui che può essere interrogato, o santo Zarathustra. [Yast ad Ahura Mazda, p. 283]

In questa duplice affermazione c'è contemporaneamente l'attestato della divinità di costituire l'essere (in termini heideggeriani come fonte della realtà) ma allo stesso tempo (ed è meno scontato) un essere che non si nasconde ad un approccio essoterico ma anzi si pone aperto di fronte a chi voglia (e sappia) interrogarlo. Per i mazdei la preghiera non è (solo) supplica o invocazione, ma è dialogo, come del resto è anche questo Yast che vede il dialogo tra l'interrogante Zarathustra ed il rispondente Ahura Mazda.

Alberti segnala nei significati possibili del nome divino Mazda quello legato alla memoria e al ricordo (colui che ricorda, colui che ha memoria) che lo collegano ai contemporanei termini meinen tedesco e mean inglese, tuttavia non in un’accezione statica ma piuttosto nell’accezione dinamica di “colui che crea con il pensiero”. In qualche modo però è importante non perdere la dimensione della memoria: Ahura Mazda crea il mondo ricordandolo. Ecco il senso anche del concetto nietzscheano dell’”eterno ritorno”: la divinità ricrea col pensiero (ricordo) quanto è già stato, il ricordo non causa la storia (nel senso il ricordo non condiziona l’accadersi degli eventi) ma non di meno nel suo ricordare ripropone quello che è stato. Nella creazione come ricordo si inserisce alla perfezione l’eterno ritorno dell’identico nel suo unire assoluta libertà all’impossibilità di essere diversamente.

La modalità umana dell’essere non è quindi che il libero mezzo (si può, seguendo le seduzioni della druj, non volerlo) per trasfigurare, trascendere la realtà (personificata dall’anima particolare, l’urvan) per consentire il pieno manifestarsi della bellezza dell’essere, la daēnā. È questo ultimo concetto che completa la dottrina spiritualistica dell’Avestā originario: la daēnā si rivela quindi non solo uno yazata, un aiuto divino all’uomo nella sua lotta contro il male, ma anche l’essenza, la categoria assoluta, ben distinta dall’urvan, l’anima particolare dell’individuo (Yasna 44 9). È l’urvan chiamato ad attuare, mediante il bene (pensieri, parole e azioni) la verità, l’ordine e l’essenza spirituale che in lui dimora e che lo incontrerà dopo la morte corporea e lo accompagnerà incontro al Giudizio. Qui sta anche la profonda originalità della dottrina avestica. L’individuo, il cui urvan non procede secondo Aša, ma segue i suoi disordinati impulsi, si ritrova con una essenza spirituale immiserita che non coincide con la splendida forma dell’altra anima, quella trascendentale, la daēnā che dio ha previsto da sempre per lui. Colui il quale, oscillando tra il bene e il male, avrà in definitiva peggiorato il suo spirito o urvan, troverà imbruttita anche l’essenza spirituale per lui prevista, così che alla fine essa rimarrà difforme dal progetto divino concepito per lei e pertanto estranea alla mente di Ahura Mazdā. Questo sarà il vero castigo, la vera condanna per i seguaci della druj. [p. 56-57]

Questa immagine di una divinità non solo non vendicativa, ma alla fine neppure giudicante, ma anzi sommamente caritatevole che accetta tutti gli esseri umani che vengono giudicati non tanto dalla divinità quanto alla fine da se stessi è perfettamente congruente con una visione immanente della responsabilità umana. Non è la divinità a giudicare ma l’uomo stesso, una volta sottratto dalla contingenza della storia a trarre le conseguenze delle proprie azioni confrontando quello che è stato con quello che avrebbe potuto essere. L’inferno non è il girone dantesco con demoni mostruosi che infliggono perpetuamente terribili torture ma la tortura ben più terribile della consapevolezza, a fronte della benevolenza e del perdono divini, del bene che non abbiamo fato non per limiti o impedimenti, ma perché abbiamo preferito la strada più facile sussurrataci dalla druj tentatrice. Non basta quindi convertirci in tempo, confessarci in punto di morte, per espiare i nostri peccati. Pur importante, la funzione consolatoria della confessione e del perdono divino per tramite del sacerdote rischia troppo spesso di tramutarsi in una scappatoia per continuare a ripetere gli stessi errori. In realtà anche nell’Avesta esiste tutta una serie di rituali per purificare, ma più spesso punire, chi abbia commesso azioni contrastanti la fede: prima ancora che la dannazione per l’Avesta la contravvenzione dei precetti rituali (che causano impurità se non eseguiti o non eseguiti correttamente) viene sanzionata allo stesso modo in cui verrebbe sanzionata una controversia “civile”. Anche qui occorre porre attenzione al contesto: la società in cui e per cui si muove l’Avesta è una società in cui non esiste un diritto complesso e raffinato e la risoluzione delle controversie viene quindi assegnata o al signore tramite decisione arbitraria e inappellabile o al sacerdote che deve dirimere le questioni “minori” utilizzando i parametri offertigli dai precetti religiosi.

In conclusione, tolta l’ossessione della purezza legata a una concezione primitiva che collegava la malattia, l’infermità e la morte al peccato,

la parola di Mazdā, rivelata a un profeta, possa oggi e domani far meditare l’umanità ed elevarla, con la concisione del suo comandamento: humata, hukhta, xvaršta, “buoni pensieri, buone parole, buone azioni” [p. 67]

e dobbiamo quindi prendere il sincretismo mazdeo, migliorarlo tramite la rivoluzionaria pietas cristiana, ed applicarlo alla vita ed alla realtà quotidiana di ognuno per lavorare consapevolmente ad una società più giusta, più aperta, più tollerante.



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