Sossio Giametta (riprendo dal suo sito):
Nato a Frattamaggiore (Napoli), il 20 novembre 1929, è traduttore di classici, filosofo, saggista, scrittore, giornalista. Dal 1° luglio 1965 vive a Bruxelles, dove ha lavorato presso il Segretariato del Consiglio dei Ministri della Comunità Europea (oggi Unione Europea).
In Italia il suo nome è legato soprattutto a Nietzsche, per aver egli collaborato all’edizione critica Colli-Montinari e per avere, di Nietzsche, tradotto tutte le opere più quattro volumi di frammenti postumi (1884-1889), per Adelphi, Rizzoli, Utet e Biblioteca di Via Senato. A Nietzsche ha anche dedicato una dozzina di saggi e monografie e un’antologia di scritti (La stella danzante, BUR 2000), che ne fanno il suo più profondo e originale interprete.
La sua vocazione filosofica si è manifestata tardivamente: entrato a lavorare in banca a Milano, fu colpito da una crisi psico-fisica, da cui guarì, come ha riconosciuto, con l’aiuto della filosofia di Spinoza, di cui allora si traduceva per sua utilità personale e non per la pubblicazione, l’Ethica ordine geometrico demonstrata, il sistema più breve e più potente della filosofia moderna. Oltre a Nietzsche e a Spinoza, ha tradotto anche opere di Schopenhauer – del quale resta il maggior traduttore italiano – di Cesare, Goethe, Freud, Hegel, Stirner, ecc.
Ha collaborato con il Mattino di Napoli, l’Unità, il Giornale, la Repubblica, il Corriere della Sera, Sette e collabora attualmente con le pagine napoletane de la Repubblica e con la Domenica del Sole 24 Ore. Come narratore ha al suo attivo romanzi e racconti.
Negli ultimi anni ha espresso il suo pensiero filosofico, da lui definito Essenzialismo, in una trilogia pubblicata da Mursia: Il bue squartato e altri macelli. La dolce filosofia (2012), L’oro prezioso dell’essere. Saggi filosofici (2013) e Cortocircuiti (2014). Questa trilogia è stata completata con Grandi problemi risolti in piccoli spazi. Codicillo dell’essenzialismo (Bompiani 2017).
Di Giametta ho appena concluso la lettura di Caleidoscopio filosofico. L’eterno ritorno nel Nietzsche di Heidegger e altri saggi (Mimesis, 2022). Si tratta di una raccolta di saggi, interventi e recensioni su vari argomenti di cui il primo, il più corposo e denso, è dedicato a L’eterno ritorno nel Nietzsche di Heidegger. In esso Giametta sostiene l’inessenzialità del concetto di “eterno ritorno dell’identico”, pure esageratamente promossa da Nietzsche stesso a perno del suo sistema e poi da Heidegger, nel testo analizzato, ampiamente sostenuta come tale da quelli che Giametta considera (con analisi gustose) arzigogolati sofismi. L’analisi del concetto di “eterno ritorno dell’identico” in Nietzsche ha due livello: quello filologico e quello filosofico. Giametta mostra bene, a livello filologico, come tale concetto, pur spacciato da Nietzsche come centrale nella sua opera, si presente in realtà in pochi testi e ove si trova non risulti centrale nell’esposizione complessiva. Anche nel Così parlò Zarathustra si trova nella terza e quarta parte, di composizione successiva al nucleo iniziale e (giudizio di Giametta) di minore ispirazione e pregnanza. Il motivo di questa assenza sarebbe da ricercarsi della debolezza intrinseca del concetto. Nietzsche lo ricaverebbe dalla filosofia orientale ma non riuscirebbe ad inserirlo organicamente nella sua filosofia che è essenzialmente filosofia morale. Detto in maniera estremamente semplice: se tutto è destinato a ripetersi in maniera assolutamente identica, quale necessità vi sarebbe di migliorarsi, di incarnare la volontà di potenza? Se tutto si ripete uguale, per quanti sforzi possiamo fare per migliorarci (o peggiorarci) comunque siamo “condannati” ad immancabilmente fare di nuovo ciò che abbiamo già compiuto. In realtà penso che il problema interpretativo di Giametta discenda da una non eccelsa scelta espressiva di Nietzsche. Per quanto infatti “eterno ritorno dell’identico” sia una formula di notevole impatto comunicativo, presta il fianco a critiche come quella di Giametta, anche perché Nietzsche stesso ne resta abbagliato al punto da interpretarla letteralmente.
Lascio per un attimo in sospeso il concetto nietzscheano per suggerire di considerare i problemi al concetto comune di tempo (ed alle varie alternative proposte) che Philip K. Dick formula all’interno della sua Esegesi (Fanucci, 2015): per Dick il tempo così come noi lo esperiamo è un’illusione o comunque una forma limitata della realtà. Se il tempo è un’illusione o una forma limitata della realtà, come possiamo capire com’è la realtà o almeno una sua forma superiore? Provando ad affrontare il problema da un punto non narrativo ma tendenzialmente scientifico dobbiamo rilevare che il tempo è una dimensione che noi percepiamo come una freccia con un verso ed una direzione. Ma che la direzione non sia inflessibile è dimostrato dalla presenza dei tachioni, particelle che percorrono il tempo in direzione inversa. Che il verso non sia inflessibile è dimostrato dalle grandiose distorsioni dello spazio-tempo come i buchi neri all’interno del cui orizzonte degli eventi nulla di certo può più essere detto anche della dimensione temporale. Evidentemente come esseri umani non possiamo non vivere all’interno della “prigione di ferro” (come chiamava Dick l’esistenza temporale umana) del tempo e dello spazio e percorrere il sentiero temporale nell’unico senso che ci è concesso. Tuttavia non è impossibile pensare di allargare l’orizzonte della consapevolezza oltre l’immediato esperito dai sensi. E ipotizzare quale sia la realtà oltre la nostra immediata dimensione temporale. È ciò che, con estremo appeal ma con somma imprecisione, ha fatto Nietzsche col concetto dell’“eterno ritorno dell’identico”. Il punto maggiormente ambiguo della formula è quello del “ritorno”: esprime un ciclo che perciò stesso è situato nella dimensione temporale e subisce la critica giamettiana che ne rileva la contraddittorietà dell’identicità. Giametta però non considera a sufficienza la possibilità che identità e differenza siano su piani diversi. C'è il piano dell'ente che è quello della differenza e c'è il piano dell'essere che è quello dell'identità. La storia e la finitezza sono caratteristici del piano dell'ente senza che questi due piani siano però separati. L'unione essendo esattamente l'eterno ritorno. Meglio: Dio e Natura sono aspetti diversi di una stessa realtà, da una parte vista sotto specie dell'infinito e dall'altra del particolare. Il particolare e l'infinito possono coincidere nell'eterno ritorno, che non è letteralmente un ritorno, un fare di nuovo la stessa cosa (il che ricadrebbe nell'ambito dello storico e del particolare e quindi non potrebbe essere identico) ma piuttosto dell'uscita dall'orizzonte storico. Nel concetto di infinito divenire, che Giametta oppone a quello di “eterno ritorno dell’identico” non è necessariamente incluso o collegato quello di infinito. Per certi versi è vero il contrario: il divenire è una caratteristica del finito. L'infinito è permanere non divenire. Come si accorda il divenire del finito col permanere dell'infinito? Attraverso l'"eterno ritorno dell'identico" (avendo cura di ricordare che "ritorno" non va inteso alla lettera come rifare una o più volte lo stesso percorso, ma come permanenza del finito nell'orizzonte dell'infinito). La finitezza dell’ente (e quindi la nostra finitezza come esseri umani) è perciò una conseguenza dell’osservazione dal punto di vista della temporalità che è la dimensione immediata. Ma se osservata dal punto di vista dell’essere essa è infinita e necessaria. Questo rende problematica la dimensione morale? Niente affatto, anzi si accorda perfettamente all’imperativo categorico kantiano: “agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere nello stesso tempo come principio di una legislazione universale”. Perché ogni nostra azione è sempre e comunque universale.
Altri post in cui ho affrontato il tema del tempo:
• https://ossessionicontaminazioni.blogspot.com/2020/12/temporalita-di-heidegger-e-attualismo.html
• https://ossessionicontaminazioni.blogspot.com/2019/11/lio-tra-identita-e-differenza-o-della.html
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