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Diario dalle prigioni turche

 


È un fumetto Prigione N° 5 di Zehra Doğan, appena pubblicato in italiano da Becco Giallo, ma è anche la dimostrazione di come il medium fumetto possa andare molto oltre la narrazione più o meno leggera (a cui tutti siamo più o meno abituati grazie al cinema) per fare giornalismo e documentazione ma anche riflessione politica.

Prigione N° 5 è il diario di tre anni di reclusione per aver documentato l’attacco delle forze militari turche nella città di Nusaybin, sulla frontiera turco-siriana. Nel 2015 in risposta agli attacchi terroristici di Daesh la popolazione in prevalenza curda opta per l’autogestione democratica e come risposta il governo turco invia l’esercito per reprimere tale esperienza tramite uccisioni, arresti e coprifuoco. Doğan racconta graficamente quello che succede a Nusaybin:

I giovani imbracciano armi di ogni sorta. Lo Stato, invece, utilizza l’artiglieria pesante, esplosivi, mezzi corazzati, mitragliatrici, caccia, e ha interi battaglioni di soldati ben addestrati. Ma nemmeno davanti alla resistenza dei giovani si fermano.
Dopo un anno a Nusaybin i militari hanno riconquistato i quartieri. Ma soffrono di un disturbo psichico che lo Stato chiama “Sindrome di Nusaybin”.
Hanno bombardato e distrutto la città, sono entrati nelle case, hanno razziato tutto. I muri sono stati coperti di insulti sessisti e nazionalisti. La soldataglia si è masturbata con la biancheria delle donne, lasciandoci la cifra del suo sperma.

Per aver documentato ciò, Doğan viene arrestata ed internata a Mardin per 141 giorni quando, dopo la prima udienza del processo, ottiene la libertà vigilata. Revocata però non appena Doğan organizza un’esposizione delle sue opere realizzate a Nusaybin. Per questo Doğan viene condannata ad una pena detentiva di 2 anni, 9 mesi e 22 giorni che sconterà nel carcere di Diyarbakir e di Tarse.

A Diyarbakir Doğan viene inserita nel braccio delle detenute politiche, tutte curde in carcere anche da decenni per aver aver partecipato a manifestazioni o aver osato parlare in curdo in pubblico. Doğan, all’inizio spaventata dall’ambiente, si trova poi a suo agio con le compagne di prigionia, tanto da utilizzare le proprie capacità per documentare la vita della prigione e la storia delle detenute e delle loro condizioni. Diyarbakir negli anni ‘80 è stata una prigione tristemente famosa per le torture e gli assassinii compiuti all’interno delle sue mura sotto la direzione di Esat Oktay, in seguito alle proteste rimosso ed infine assassinato a sua volta. Se nella Diyarbakir in cui è reclusa Doğan i prigionieri non vengono più torturati, stuprati, costretti a mangiare topi e feci, è anche grazie al coraggio ed alla inflessibile determinazione di prigionieri come Sakine Cansiz ed altri che con i loro scioperi della fame (in molti casi fino alla morte) e con le loro immolazioni a scopo dimostrativo, sono riusciti a conquistare diritti e rispetto anche per i detenuti nelle carceri turche. Non di meno Doğan racconta le condizioni dei figli delle detenute, bambini anche piccolissimi, costretti a crescere senza sole e senza cibo decente, con gli unici giochi che le detenute riescono a creare per loro adattando gli oggetti di uso quotidiano.

Doğan narra tutto ciò con i disegni grezzi che le sono consentiti dal doverli realizzare sul retro delle lettere che le spediscono parenti ed amici con strumenti di fortuna, fluidi corporei compresi. Matite non sono consentite ed in una occasione sono sequestrate ad un parente che cerca di passargliele durante una visita. Nonostante ciò l’opera di Doğan coinvolge ed appassiona il lettore che capisce come lo scandalo non sia stato che il Presidente del Consiglio italiano abbia dichiarato il Presidente turco Erdogan un dittatore, ma piuttosto che non sia stato conseguente ed abbia sanzionato le attività economiche con la Turchia e non abbia fatto quanto in suo potere per far sì che la Comunità europea non continuasse a finanziare (vittima del ricatto dei profughi bloccati alla frontiera con l’Europa) le guerre turche sia all’interno contro i curdi, sia in Libia, in Armenia, in Siria.

Di seguito la copertina ed alcune pagine del libro






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