POST SCRIPTUM:
Sull'ultimo numero di AIB Studi (V. 60, n.1, 2020) è uscito un denso contributo di Luca Ferrieri sulla risposta delle biblioteche al lockdown e al nuovo scenario causato dall'emergenza sanitaria: Contro l’attendismo bibliotecario: quadri di un’esposizione. Mi permetto di commentare anche questo, in qualche modo appendice ed aggiornamento del volume.
Ma certo alcune biblioteche (più spesso le medio-grandi, quelle inserite in circuiti funzionanti di cooperazione, quelle metropolitane, quelle dirette da bibliotecari sensibili e intraprendenti), hanno messo in piedi un’appassionata e appassionante serie di iniziative, estratte da un ricco cilindro inventivo e solidaristico dotato anche di notevole flessibilità.
Durante l'incontro alla Biblioteca di Fiesole con David Lankes per la presentazione del suo libro (uscito contemporaneamente a quello di Ferrieri Biblioteche innovative, mi sono permesso di commentare la distanza tra le biblioteche grandi e quelle piccole sull'orizzonte dell'adeguamento al nuovo scenario causato dalla pandemia. Quelle grandi, forti di una struttura propria, e di competenze variegate in grado di supportarsi a vicenda, posseggono maggiori possibilità di rispondere ai cambiamenti richiesti e metabolizzare il nuovo scenario, mentre spesso le biblioteche medio-piccole, gestite in outsourcing o mediante la buona volontà e disponibilità necessaria in una condizione di "one person library" dipendono eccessivamente da amministrazioni e apparati organizzativi spesso non sufficientemente competenti e sensibili per riuscire se non per puro caso a rispondere adeguatamente alle mutate esigenze. Il problema è che si ripropone lo scenario possibile di cattedrali della cultura nel deserto, al posto della più o meno fitta rete di istituzioni capillarmente presenti per supportare le comunità. E questo approfondisce il solco dei "divide" non solo digitali che la pandemia ha messo in luce.
L’attendismo identifica un atteggiamento ricorrente nella storia italiana (e non solo), in parte legato a concomitanti anche se non sovrapponibili fenomeni di trasformismo, revisionismo, opportunismo; un atteggiamento non connotato solo dall’attesa (che può essere scelta saggia, perfino strategica, in circostanze in cui non sono noti molti aspetti consequenzialistici legati all’azione), ma dalla ‘speculazione’ sull’attesa, in modo da favorire certi esiti a scapito di altri. Con questo si evince che l’attendismo è spesso molto più interventista di quel che sembri (anzi storicamente potremmo dire che attendismo e interventismo sono dei falsi nemici, così come in campo bibliotecario l’attivismo e l’attendismo non sono sempre e semplicemente contrapposti). Basti pensare al ruolo che l’attendismo ha rappresentato nella fase storica seguita al 25 luglio e all’8 settembre 1943 (che riecheggia nella assonanza tra le parole d’ordine del ‘tutti a casa’ di allora e del ‘resto a casa’ di oggi): di fronte alla possibilità e all’annuncio di una drastica rottura storica, l’attendismo si assumeva il compito, consapevole o inconsapevole, del deliberato rinvio, facendo affidamento sull’aiuto del tempo (di qui l’istanza ‘temporeggiatrice’) per favorire soluzioni moderate e frenare le componenti più radicali della Resistenza. Lo spirito badogliano si è prolungato nei compromessi del dopoguerra, più o meno giustificati quanto si voglia, fino a costituire una specie di carattere nazionale emergente a intervalli storici. L’attendismo lavora alacremente allo scopo di minare la tempestività delle decisioni necessarie; anche in questo senso più che un nemico dell’impazienza rivoluzionaria si rivela un fautore della accondiscendenza moderata. Magari ci sono state epoche in cui l’attendismo non ha lavorato per il re di Prussia, anche se al momento non me ne vengono in mente; probabilmente in altre circostanze ha avuto migliori frecce al suo arco; sicuramente ha avuto un ruolo positivo nel contrastare una certa mistica dell’azione di stampo dannunziano o guerrafondaio o fascista; ma ora occorre riferirlo al contesto pandemico, senza perdersi in altri corsi e ricorsi.
Tornando quindi al presente bibliotecario, occorre ribadire che dietro alcuni atteggiamenti ‘attendistici’ nella gestione della pandemia ci sono state e ci sono valide spiegazioni che vanno prima di tutto comprese. Non mi riferisco tanto ai ritardi e alle lungaggini delle autorità politiche e sanitarie, che mi sembrano effettivamente difficili da giustificare, anche se possono invocare l’attenuante, non so fino a che punto valida, della generale impreparazione. Penso piuttosto alle difficoltà che molti operatori hanno incontrato nell’agire e di cui non erano punto responsabili: la mancanza degli strumenti, dei dispositivi di protezione, la scarsa conoscenza della malattia e del virus, la incapacità di trapiantare lo smart working in un’organizzazione del lavoro, soprattutto nel pubblico impiego, che aveva in precedenza pervicacemente ostacolato ogni ricorso al telelavoro; la sordità dei datori di lavoro a introdurre misure di sicurezza, scaricando la responsabilità sui singoli e approfittandone in molti casi per licenziamenti o ricorso a lunghi periodi di ferie obbligate. Tutto ciò ha favorito, una tendenza al ritiro, alla pausa, e a volte ad ogni impegno diretto nella gestione solidale dell’emergenza. In buona sostanza la logica dello ‘stato di eccezione’ non ha favorito né la partecipazione, né la responsabilizzazione.
Penso che questo si possa direttamente ricollegare a quanto scritto sopra: dove c'è una struttura con competenze che possono supportarsi e fare rete, l'atteggiamento attendista è più complesso perché deve raggiungere una massa critica per bloccare tutta la struttura, dove invece le dimensioni minori spesso basta un singolo funzionario, magari mai stato al frontoffice a fronteggiare le richieste, le rivendicazioni, le critiche e le lamentele degli utenti, a bloccare tutto in attesa di una mitica e mitizzata conformità alla lettera di leggi e disposizioni.
Non sempre è stata netta la rivendicazione dell’essenzialità della funzione delle biblioteche, della lettura e della cultura, più volte calpestata dai successivi e ondivaghi decreti ministeriali in nome di una riedizione sotterranea dei tremontiani principi per cui ‘con la cultura non si mangia’. I decreti, che di settimana in settimana stilavano l’elenco, spesso contraddittorio, delle cose permesse e di quelle vietate, mostravano in filigrana una gerarchia valoriale dei beni e servizi ‘necessari’, da cui la produzione e distribuzione di libri è stata esclusa, almeno fino alla cosiddetta ‘fase due’. Questa gerarchia evidenziava anche il peso dei gruppi di interesse, economici e politici, verso cui c’è stato un prevalente atteggiamento di subalternità da parte della ‘filiera’ del libro, con l’eccezione dell’AIB e di alcune librerie ed editori indipendenti. Per quanto la rivendicazione dell’essenzialità possa comportare una sorta di trasformazione delle persone in simboli (come hanno sostenuto in un loro intervento i librai del gruppo LED), per quanto le norme sulle chiusure, aperture e riaperture, si siano susseguite in disordine sparso, in assenza di controlli sulle reali condizioni di sicurezza dei luoghi di lavoro, non credo si possa concludere che il richiamo all’essenzialità dei servizi bibliotecari rappresenti un mero esercizio retorico. In questo caso sotto tale sanzione cadrebbe metà dell’elaborazione biblioteconomica mondiale.
Quello che personalmente mi ha dato più da pensare è che sono improvvisamente stati (alcuni) colleghi e colleghe a ribadire la "non essenzialità" del servizio bibliotecario, probabilmente timorosi che in caso contrario fossero stati costretti a riaprire anzitempo le istituzioni e ad affrontare il compito di gestire in modo adeguato il servizio in tale scenario. Il che mi fa un po' malignamente ipotizzare che per alcuni le biblioteche sono un servizio essenziale solo quando fa comodo ai bibliotecari stessi...
L’attendismo è stato anche una causa e un effetto dello stato di abbandono in cui sono state lasciate le piccole biblioteche e i monobibliotecari delle one person library a cui spesso non è rimasta altra scelta che chiudere i battenti e aspettare, letteralmente, tempi migliori.
Esattamente quanto osservato sopra. Ma le biblioteche grandi non possono sopravvivere (se non nell'ottica pre-public library) se non in un'ottica puramente elitaria senza la rete di biblioteche costituita da tante piccole e medie istituzioni diffuse sul territorio che contribuiscono a sollevare le grandi dai servizi di base e contemporaneamente garantiscono il collegamento ad esse di tutto il territorio e non solo della grande area urbana.
È possibile che la risposta attendista si sia verificata anche in forza di una certa confusione tra la necessità di garantire il rispetto delle misure di sicurezza e il ritiro della biblioteca dalla scena pubblica. Le due cose infatti non sono legate, anzi sono in contrasto. Proprio la volontà di mantenere l’immagine della biblioteca come ‘porto sicuro’, comporta un sovrappiù di attivismo, di advocacy. In situazioni difficili come quella odierna la biblioteca dovrebbe mantenere e curare particolarmente il suo rapporto habermasiano con la ‘sfera pubblica’, proprio perché questa è la prima ad essere messa in discussione dal virus, con il distanziamento sociale, i divieti di assembramento e le politiche di contenzione. Le biblioteche dovrebbero reagire «alla acquiescenza dell’opinione pubblica nella fase del lockdown». La sospensione della comunicazione pubblica, facilitata dalla chiusura contemporanea di tutte le istituzioni culturali, dei festival, dei numerosi saloni e fiere del libro in programma, dei teatri, dei cinema, delle piazze di ogni tipo, non è stata compensata e contrastata adeguatamente dalle biblioteche. E non a caso l’attacco al ruolo della biblioteca nella sfera pubblica è uno dei tratti caratterizzanti delle politiche neoliberiste in materia di biblioteche.
Può parere pleonastico, ma sono convinto che la ripetizione in questo caso non solo aiuti ma che proprio sia necessaria quale sottolineatura a ribadire la forza del concetto: il rapporto con la sfera pubblica può avvenire solo nella cura e nella manutenzione della rete che si dipana sul territorio, nel garantire da parte di tutti i nodi del sistema un minimo imprescindibile di servizio.
Si è osservato in molte sedi ed occasioni che il Covid ha fortemente accelerato la migrazione digitale di molte attività svolte dalle biblioteche, determinando innanzitutto un considerevole aumento dei prestiti e degli interprestiti di documenti elettronici. Questo dato è confermato da tutte le prime elaborazioni statistiche che le biblioteche stanno producendo sulla loro attività nel periodo della chiusura per l’epidemia. Tuttavia occorre, a mio avviso, tenere presenti alcuni limiti derivanti dalla situazione pregressa: l’insufficienza dell’alfabetizzazione digitale, l’iniquità del mercato digitale e dei meccanismi di prestito, la scarsa qualità dei prodotti editoriali, l’insistenza su modelli di ebook e di digital lending fortemente improntati al mimetismo analogico più che allo sviluppo delle potenzialità digitali.
Situazione che personalmente facevo rilevare già all'epoca della mia "presidenza" del Comitato scientifico di ReteINDACO. Di fatto l'offerta digitale delle biblioteche pubbliche italiane è in mano a due soggetti privati a loro volta condizionati dalle scelte spesso miopi dell'editoria tradizionale che tendenzialmente vede nelle biblioteche digitali mancate vendite per il settore cartaceo. Questo comporta tutta una serie di limitazioni, penalizzazioni, deroghe a soggetti completamente esterni anche in materia di dati sensibili (come ad esempio Adobe che, per gestire i diritti digitali, ha accesso a dati sensibili sulle letture degli utenti). Lo scenario successivo alla pandemia deve far riflettere sia le biblioteche (a livello ad esempio di associazione professionale) sia i decisori politici sul fatto che la biblioteca digitale non deve essere una raccolta di documenti digitali, tanto meno una raccolta di documenti digitali forniti da qualcun altro di cui le istituzioni fondamentalmente si limitano a pagare per i propri utenti l'accesso, quanto (lankesianamente) vere e propri servizi, collezioni scelte, ordinamento, reference, attività di promozione, ecc. Ed esattamente come la biblioteca può acquistare qualsiasi pubblicazione cartacea pubblicata, i decisori politici devono: impedire agli editori di offrire selettivamente alle biblioteche la propria produzione digitale e prevedere la costituzione di una piattaforma nazionale di biblioteca pubblica digitale perché non ha senso in ambito digitale (almeno a livello di collezione di base e specialmente per testi legati all'istruzione ed alla documentazione) che quanto messo a disposizione da una biblioteca possa differire da quello messo a disposizione di un'altra a volte anche distante pochi chilometri. Ed infatti Ferrieri prosegue:
Se questo bisogno sia stato o meno soddisfatto lo si potrebbe/dovrebbe vedere dai dati relativi ai prestiti digitali. Essi sono in aumento, ma non così tanto, e sicuramente non in modo proporzionale all’aumento della domanda. I prestiti digitali sono stati infatti lamentevolmente frenati dalla inadeguatezza del sistema di digital lending imposto dagli editori e non sufficientemente contrastato dai bibliotecari, basato su una assurda ‘analogia con l’analogico’ e sulle mille trappole dei sistemi proprietari (sistema one copy, one user, DRM, impossibilità di restituzione anticipata dei documenti digitali, difficoltà nel trasferire o usare i testi su diversi device, nel copiare, citare, stampare, sottolineare, condividere, ecc.). Chiunque abbia usato in questo periodo (ma anche prima) il sistema di prestito digitale delle grande maggioranza delle biblioteche italiane di pubblica lettura sa che l’offerta di titoli è notevolmente ridotta, che per i titoli maggiormente richiesti le code di attesa sono proibitive, che l’operazione è spesso ostacolata da procedure non propriamente amichevoli, non alla portata di tutti, generando parecchia delusione tra i lettori, e contraddicendo nei fatti la volontà di vicinanza professata a parole durante la distanziazione epidemica. Le biblioteche hanno ragionevolmente reagito alzando, nel periodo di chiusura, i tetti di download disponibili, che erano molto bassi, molto di più del prestito cartaceo, ma questo non ha cambiato di molto la situazione per i limiti generali del sistema e la carenza di titoli disponibili.
Concludo condividendo in pieno (e riportando) le riflessioni conclusive di Ferrieri:
Per fare del quotidiano un’invenzione è necessaria la biblioteca. Con tutta la sua creatività, la sua esperienza maker, la sua filosofia del fare, del leggere e del far leggere, la sua prossimità, la sua porosità. Perché abbiamo bisogno che la sfera del quotidiano irrompa nella vita della biblioteca, completando un processo di secolarizzazione e di appropriazione collettiva che è in corso da qualche secolo. Ma abbiamo anche bisogno che la biblioteca arricchisca l’esperienza del quotidiano, attraverso la sua lettura trasgressiva e decostruttiva, la sua vigile attenzione al dettaglio. La biblioteca con-vivente, che esce dal confronto con l’epidemia e con la malattia, è vicina alla visione olistica proposta da Maurizio Vivarelli e Margarita Pérez Pulido, ma anche alla prospettiva naturalistica e organicistica di Ranganathan. La biblioteca olistica non è quella che si ricava dalla somma dei suoi servizi, o dalla pur necessaria visione sistemica delle sue funzioni, o dalla tradizionale visione umanistica: è la biblioteca che, come dice Wayne A. Wiegand in Part of our lives, entra a far parte della vita delle persone. È quella che invece di analizzare «il ruolo dell’utente nella vita della biblioteca», cerca di vedere «qual è il posto della biblioteca nella vita dell’utente» e magari di cambiarlo.
Prima di tutto voglio ringraziare Francesco Mazzetta per l’attenta lettura del mio libro e per l’ampio e puntuale commento che ne ha fatto. Non posso qui riprendere tutti i punti toccati per non abusare della pazienza di chi legge e dell’ospitalità del sito. E anche perché sono d’accordo con quasi tutte le osservazioni di Francesco. Mi limito quindi ad affrontare brevemente uno dei punti centrali nella sua analisi, e anche quello che forse maggiormente si presta a una produttiva discussione: la valutazione del contributo biblioteconomico di David Lankes. Adotterò qualche volta lo schema citazionale usato da Francesco (molto utile, a mio avviso, perché permette un confronto ravvicinato tra testo e commento), scusandomi per le eventuali autocitazioni.
Il riferimento è dunque a Lankes e in particolare al suo ultimo libro (tardivamente tradotto in italiano in questi mesi: come ricorda Francesco, l’edizione originale è del 2013). Sull’importanza dell’opera di Lankes, sul suo carattere innovativo concordo pienamente. Il ruolo della comunità, le biblioteche come conversazioni, come luoghi del fare, come makerspace, come strutture creatrici di conoscenza, lo spostamento del baricentro dalle collezioni alle relazioni (la biblioteca come “luogo dei legami”, direbbero Damien e Melot) – anche se non si deve mai dimenticare che le collezioni sono relazioni: questo e molto altro che troviamo nei suoi libri fa parte di quel “cambio di paradigma” che auspico ne La biblioteca che verrà. Ammiro anche lo stile colloquiale e antierudito con cui Lankes tratta argomenti di grande spessore scientifico.
Perché allora non me la sento di sottoscrivere integralmente l’affermazione di Francesco secondo cui “un paradigma forte nuovo c’è, ed è esattamente quello di Lankes”? Perché secondo me all’elaborazione lankesiana manca qualcosa di decisivo per rappresentare pienamente il necessario, e radicale, cambiamento di paradigma.
Elenco, semplifico ed estremizzo:
a) la comunità di cui parla Lankes è un termine prevalentemente neutro, tecnico, socialmente indeterminato. Lankes la idolatra, ma non la descrive, non la radica storicamente; quando prova a farlo (ad es. in Biblioteche innovative, loc. 1803 dell’ediz. elettronica), il concetto assomiglia pericolosamente all’idea di gestione partecipata che in Italia è stato messo in pratica, ed è fallito, nella stagione delle “commissioni di biblioteca” (riposino in pace). Per rispondere a una delle domande di Francesco (riferita alla citazione di pag. 65), tra il “mondo del comune” e la “comunità” di Lankes rischia appunto di non esserci alcuna relazione stringente. In sostanza la nozione di comunità, che già ha una storia culturale controversa, rischia di diventare poco più di un modo alternativo di chiamare l’utenza, reale e potenziale. E’ lontana dall’indicare una politica delle alleanze, una linea di gestione dei conflitti, uno spartiacque, quale potrebbe essere, per esempio, la questione della proprietà intellettuale e dei diritti digitali, tema che pure Lankes lambisce continuamente.
Non c’è “soggetto” in Lankes, oltre i bibliotecari; e questo peso gettato sulle loro spalle rischia di essere eccessivo e soprattutto di abbandonarli a una responsabilità e a una solitudine superiore a quella che già vivono. Naturalmente sono consapevole che il problema del soggetto nella strategia del cambiamento è di portata colossale e non lo si può affrontare né con le semplificazioni né con le nostalgie. Però ci sono due fenomeni importanti che si stanno verificando intorno alle biblioteche: all’esterno la crescita di uno zoccolo duro, di utenti-sostenitori (testimoniato anche alle innumerevoli associazioni di “amici della biblioteca” che sorgono), e all’interno quella di una forza lavoro precarizzata, colta, nomade, che è parte di una più vasta area di lavoratori della conoscenza. La saldatura tra queste due componenti potrebbe avere un impatto notevole, e inatteso, sulla questione del cambiamento e della valorizzazione delle biblioteche.
b) del resto l’orizzonte politico-culturale di Lankes è “liberal-democratico” (lo ripete parecchie volte), ed è quindi comprensibile questa reticenza. Ma lo è anche questa domanda: se l’orizzonte liberal-democratico è quello che ha generato l’idea di public library, con i suoi valori e i suoi limiti, come potrà essere anche quello che la traghetterà fuori dalla sua crisi? Il rapporto di Lankes con l’area radical dei bibliotecari è tiepido: egli ha spesso sostenuto le loro posizioni ma ha ricevuto anche qualche tirata d’orecchi, come quando ha forzato i picchetti di uno sciopero bibliotecario per tenere una conferenza sui bibliotecari radicali. Kendra K.Levine ha scritto a questo proposito sul suo blog: “Personalmente sono stanca di sentirmi spiegare come sarà il futuro della mia professione mentre sto lottando per renderlo possibile”.
c) l’ormai classica definizione dell’Atlante (“La missione dei bibliotecari è quella di migliorare la società facilitando la creazione di conoscenza nella propria comunità”) a me continua a sembrare eccessivamente generica (cos’è il miglioramento? cosa vuol dire facilitare?). Anche il termine “benessere” è abbastanza equivoco. Tra l’altro non possiamo neanche tradurlo welfare perché Lankes parla proprio di well-being (p. 23 dell’edizione originale). E’ vero che in Biblioteche innovative Lankes si sforza di spiegare la direzione del miglioramento, e così fa anche in queste slide. E tu, Francesco, lo hai fatto molto bene nel tuo articolo sul Manifesto. Ma trovo che ci sia ancora molto da lavorare, a partire dal termine, miglioramento, che non allude precisamente a un cambio di paradigma.
d) l’altrettanto famosa e fulminante affermazione di Lankes (“una stanza piena di libri è semplicemente un armadio, mentre una stanza vuota con dentro un bibliotecario è una biblioteca”), anche spogliata dalla sua voluta paradossalità, mostra, come ho argomentato alle pp. 239 e seguenti del libro, un alto tasso di riduzionismo (quello di ridurre la biblioteca al bibliotecario) e un’idea mitica e letteraria (quasi borgesiana) del bibliotecario stesso. Bisogna ringraziare Lankes per la sua attenzione alla figura professionale e al futuro lavorativo dei bibliotecari, ma questo nella sua visione avviene “a scapito” delle biblioteche. Lankes su questo non lascia spazio a molti dubbi, come si vede anche nella slide 7 e segg. di questa sua presentazione.
e) ma il punto principale di debolezza, a mio parere, sta nella mancanza di una politica della lettura, per dirla con uno dei concetti che ritornano più frequentemente nel mio libro, anzi della mancanza della lettura tout court, anche se la parola viene usata abbastanza spesso. Non riprenderò l’esempio dell’invettiva dell’Atlante contro i poster sulla lettura (di cui ho parlato a p. 230 del libro), ma anche in Biblioteche innovative ogni riferimento alla lettura è diminutivo, se non avversativo, a partire dal titolo contenuto nel capitolo 3 (Io amo leggere… Non proprio). La lettura è legata alla vecchia “narrazione” bibliotecaria (loc. 252), la questione se la biblioteca debba occuparsi della “lettura di svago” (termine, anche qui, semidispregiativo) viene rimessa alla comunità (loc. 1281 - comincio ad aver paura di una comunità cui viene demandata questa questione, che nella stragrande maggioranza delle biblioteche italiane del XXI secolo ha una risposta del tutto scontata). Lankes commenta la mission di una biblioteca che si candida ad essere anche un “luogo dove i bambini possono scoprire la gioia della lettura” in questi termini: “abbiamo davvero bisogno di qualcuno che indottrini i bambini?” (loc. 1391). La lettura che interessa Lankes è solo l’abilità che serve per “costruire conoscenza” (loc. 1271), è la “tecnologia basilare” per “usare i libri” (loc. 1591). Ecc. ecc.
Se si vuole una sintesi della posizione di Lankes sulla lettura si può incorniciare questa frase: “ancora troppe biblioteche cercano di sopravvivere invece di rinnovarsi, e promuovono l’amore per la lettura piuttosto che l’indipendenza culturale dei gruppi di persone cui sono al servizio”. Come si possa pensare che l’amore per la lettura confligga con l’indipendenza culturale è un mistero lankesiano.
Però Lankes ci insegna una cosa fondamentale, che è il mantra che ripete ad ogni pagina, e anche nel titolo inglese del suo libro: dobbiamo “esigere di più” dai bibliotecari, dai decisori, e anche dalla comunità. Non gli saremo mai abbastanza grati per questo richiamo e per questo schiaffo alla pigrizia intellettuale.
Ministro domani mattina!!!!! Fatto 100 lo sforzo per fare un qualsiasi atto 98% carta 2% verifica sulla valida dell'operazione e controllo della cosidetta "fatto ad opera d'arte"!!!
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