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La biblioteca che verrà: qualche riflessione





Ho letto il nuovo libro di Luca Ferrieri, La biblioteca che verrà: pubblica, aperta, sociale, nel mese di maggio, per cui iniziato in pieno lockdown e terminato con le prime, ancor timide, riaperture. Si tratta di un libro ricco di spunti e concettualmente denso che faccio fatica a riassumere in una “recensione”. Così preferisco offrire, a Ferrieri e a chi sarà interessato ad approfondire la discussione, gli spunti di riflessione che mi sono appuntato leggendo le sue pagine. Si tratta pertanto di una lettura non esaustiva, assolutamente parziale e personale, che non può e non vuole sintetizzare ed esaurire tutte le argomentazioni del libro, ma piuttosto evidenziare e commentare quanto mi ha personalmente colpito anche in relazione al periodo in cui la lettura è stata effettivamente compiuta. [In nero le citazioni dal libro, in rosso le mie riflessioni: le citazioni sono state copiate durante la lettura e poi ricopiate in un file, chiedo scusa a tutti e soprattutto all’autore se in questi passaggi si fossero involontariamente creati refusi.]

In coda due "post scriptum":
- il primo dove commento il contributo di Ferrieri su AIB Studi;
- il secondo con un contributo di Luca Ferrieri alle mie osservazioni.


p. 11:
L’apertura è l’arma segreta della biblioteca che lotta per superare l’attuale tempesta perfetta, che spesso assomiglia più a una lunga bonaccia, con la biblioteca immobile come il brigantino di Conrad lungo la linea d’ombra. Quella di aprire le porte e le idee, invece di chiudersi e arroccarsi di fronte alle difficoltà, è una strategia controevidente, ma efficace e liberatoria…
Probabilmente Ferrieri quando ha scritto queste righe non aveva neanche nell’anticamera del cervello la situazione che stiamo vivendo, con le biblioteche – assieme agli altri istituti culturali – chiuse ormai da due mesi e la previsione di apertura, quando presto o tardi sarà, che vede rigorosi contingentamenti e, come conseguenza, un radicale ridimensionamento dei servizi. Dalle sale studio, ai corsi, agli incontri di lettura o di gaming, alle iniziative per le scuole, ai gruppi di lettura, tutto sarà o annullato o fortemente ridimensionato. Certo, c’è la dimensione virtuale. Ma ci sono anche fasce che per età – o anche per reddito – non possono accedervi (e ritorna inattesa la questione del “digital divide”). E spesso sono proprio le fasce per cui la biblioteca, in un modo o nell’altro, riesce ad essere maggiormente propositiva. Poi c’è la dimensione sociale, la dimensione della – per dirla con Lankes . Comunità. Esistono comunità puramente virtuali, ma quale può essere l’inter-relazione con la biblioteca così come noi la conosciamo (aggiungo: come noi l’abbiamo fatta fino ad oggi)? Se penso inoltre al mio passato, tra l’altro di adolescente timido ed introverso, non potevo non amare, come diversi dei giovani protagonisti di Stephen King, la biblioteca come spazio franco, libero da tanti stereotipi competitivi del mondo adolescenziale, di socializzazione. Forse senza la biblioteca come spazio di incontro alternativo, io stesso, come i ragazzini in It, sarei semplicemente diventato un (altro) disadattato. Per questo – forse impropriamente, leggo l’esortazione di Ferrieri a ragionare come professionisti delle e nelle biblioteche su possibili modi per ripristinare i servizi all’utenza piuttosto che chiedere chiusure “ad libitum”.

p. 19:
L’elemento della solidarietà comunitaria, infatti, non è un elemento accessorio ma costitutivo della concezione della public library. Per questo l’arretramento o il fallimento su questo terreno assume un peso emblematico, mette in crisi tutto il sistema. Ci sono stati, nella storia delle biblioteche degli ultimi secoli, e anche di recente, molti momenti in cui le biblioteche si sono dimostrate parte integrante della comunità e in cui una comunità intera si è raccolta intorno alla biblioteca. Ma ciò è quasi sempre avvenuto come atto difensivo, come unione di fronte al pericolo. Necessario, ma non sufficiente, visto che in realtà è venuta meno, troppe volte, la capacità, da parte della biblioteca, di interpretare e rappresentare la comunità. E di battersi nella comunità, per la comunità.
Il punto di partenza di Ferrieri qui è lo stesso di quello di Lankes [il libro di Lankes, Biblioteche innovative, e quello di Ferrieri sono stati pubblicati contemporaneamente e la lettura di quello di Lankes ha immediatamente preceduto quella di La biblioteca che verrà], ma mentre gli episodi servono al secondo per offrire una rappresentazione positiva del valore comunicativo della biblioteca, a Ferrieri, forse per il diverso contesto socio-geografico, forse anche per gli anni trascorsi [in originale il libro di Lankes è stato pubblicato nel 2013], servono a dare un quadro di segno opposto: è la comunità che difende la biblioteca, non la biblioteca che difende la comunità. Non un caso che poche righe prima faccia riferimento, come causa di tale situazione (tra le altre) ad una “burocratizzazione dei bibliotecari”. È dunque lecito attendersi un ritratto di un possibile quanto auspicabile bibliotecario non burocratizzato.

p. 39:
Ed ecco quindi la biblioteca postmoderna uscire dalle ceneri e dall’eredità della public library non so se con la grazia spumeggiante di Afrodite o con il piglio bellicoso di Atena. Si presenta come una sorta di contenitore semi-indifferenziato, destinato a raccogliere l’eredità, le storie e le scorie ancora utili della public library. È postmoderna prima di tutto perché storicamente collocata alla fine del moderno, e poi perché accetta e accentra un tratto distintivo, e forse uno stile, del pensiero postmoderno: il montaggio delle esperienze bibliotecarie e degli scampoli delle varie scuole di pensiero, depotenziati rispetto all’originale e inseriti in un eclettismo che non aspira alla sintesi ma si accontenta della giustapposizione. L’unico universalismo che il postmodernismo bibliotecario si concede è infatti quello della collezione e della collazione, dei frammenti. La vocazione al controllo tipica della public library (ricordiamo il controllo bibliografico universale, il catalogocentrismo, la stessa CDD ecc.), si rovescia in una sorta di neocontrattualismo fondato su regole flessibili e rivedibili, sulla coscienza del limite e su un orizzonte sempre più frantumato e frastagliato.
Le grandi narrazioni bibliotecarie novecentesche vengono inglobate (e insieme disinnescate), tenendo aperta una molteplicità di prospettive. L’evoluzione della biblioteconomia da sociale a narrativa ha, magari all’insaputa, questa genesi. La multipurpose library appare come una sorta di convergenza o di giustapposizione tra le varie tipologie e concezioni di biblioteche che si sono sin qui alternate e combattute. Non passa giorno senza che una nuova proposta si aggiunga alle altre, senza che un nuovo concept bibliotecario – quasi sempre a forte vocazione spaziale e relazionale – si affianchi a quelli esistenti, senza pretesa di sostituirli o cancellarli: la biblioteca esperienziale, la biblioteca di prossimità, la piazza, l’officina, il condominio, la biblioteca “maker”, la biblioteca “coworking”, l’open library ecc.
In realtà un paradigma forte nuovo c’è, ed è esattamente quello di Lankes della biblioteca in quanto organo della comunità. Questo paradigma è in grado di sintetizzare tutti i modelli riassunti da Ferrieri in un unico modello che possa indirizzarli verso una mission chiara e precisa.

p. 45:
...la tendenza allo sconfinamento pare essere la linea su cui si attestano e lavorano le biblioteche del nuovo secolo: nuovi pubblici, nuove pratiche, nuovi spazi, nuove tecnologie, e in mezzo la scelta dell’attraversamento e della metamorfosi come salvacondotto.
Curiosamente (o forse no) l’idea del salvacondotto per la transizione della biblioteca a nuove pratiche richiama quella dell’autocertificazione per potersi spostare durante il lockdown. Quale il periodo di emergenza che stanno attraversando le biblioteche per aver bisogno del salvacondotto?
Il legame tra biblioteca e democrazia, orgogliosamente esibito dalla public library, salvo piegarsi ad ogni politica classista e segregazionista quando i rapporti di forza lo imponevano, entra in crisi. Il riferimento delle nuove biblioteche è sempre più la comunità, e il concetto di democrazia a cui si ispirano è più simile a quello insorgente, di cui parla Miguel Abensour nel 2014, che a quello istituzionale di cui parlava Virginia Carini Dainotti nel 1964.
Curioso che nel profluvio di note con citazioni e riferimenti bibliografici, Ferrieri non abbia qui citato, collegandolo al concetto di comunità, Lankes… [per quanto più avanti nel libro vi sia un confronto diretto ed esplicito].

p. 65:
...il mondo del comune (inteso cioè come mondo dei beni comuni, ma con una accezione più ampia) che costituisce l’habitat della biblioteca e delle sue prime, naturali, manifestazioni politiche. Il comune infatti – dice François Jullien – ha una sua primaria “dimensione politica: il comune è ciò che si condivide”. Infatti il mondo del comune si presenta, spesso in modo oppositivo e sfidante, come un’alternativa alla dicotomia pubblico/privato su cui è cresciuta l’ideologia e la propaganda neoliberista di fine secolo. L’introduzione di una terza categoria, che è economica ma anche culturale, non rappresenta certo un abbandono o un’abiura della natura pubblica della biblioteca, di cui abbiamo parlato all’inizio…, ma una nuova configurazione di questa complessa relazione…
Che relazione c’è tra “il mondo del comune” e la comunità lankesiana? [Da rilevare la connotazione della funzione politica che emerge per la biblioteca: una connotazione da cui i bibliotecari sburocratizzati non possono esimersi?]

p. 76:
Lo spazio biblioteconomico, il più territoriale, è saldamente inserito nei più vasti ma contigui spazi bibliografici, culturali, linguistici. Per esserci, per essere lì dove si presenta il bisogno (ecco la prossimità), questo spazio deve caratterizzarsi come flessibile, ma anche a bassa intensità, vale a dire uno spazio che lavora a tal punto sull’abbattimento della paura della soglia, da rendere questa soglia inavvertibile, dissolvendo la propria identità in una zona mista, ibrida, dove tutto ciò che è dentro e ciò che è fuori si fondono e si confondono. Non serve che lo spazio bibliotecario, ormai profondamente rimescolato, scimmiotti il rumore dei nuovi media, la velocità dei nuovi messaggi, il cicaleccio della rete: la biblioteca vi è già immersa, anche troppo. Serve che abbatta i confini e faciliti i flussi.
Paradossalmente fa molto riflettere proprio quest’ultima frase contraddetta da un periodo in cui, a causa anche dell’emergenza, anche in biblioteca è necessario erigere nuovi confini: schermi sulle scrivanie, distanze tra le persone, quarantene cautelari per i libri, letture virtuali, ecc.

p. 110-111:
All’origine della prossimità [aspetto pregante della open library], dunque, sta una passione, una motivazione, che abbiamo già visto all’opera al banco del reference, e che ora diventa la linea generale su cui si attesta la biblioteca: l’empatia.
Passione (com-patire), empatia: queste le caratteristiche necessarie della biblioteca e del/la bibliotecario/a. Quanto sono lontani i tempi in cui il/la bibliotecario/a doveva mantenersi distante e im-parziale? Sempre più ora invece si riconosce che dote del/la bibliotecario/a deve essere quella di comprendere l’utente, entrare in una relazione di com-passione, cioè riuscire a capire ed in una certa qual misura condividere le sue passioni per soddisfare le sue esigenze. L’open library si tinge addirittura di supporto psicologico?

p. 116:
...l’ospitalità della lettura nasca da – o in rapporto con – l’esperienza dell’estraneità…
Questo mettere in relazione in via privilegiata l’ospitalità della lettura (e, per estensione, della biblioteca) all’esperienza dell’estraneità si può ricollegare a quanto scritto in Lettore vieni a casa di Maryanne Wolf: la lettura profonda, esperienza collegata alla crescita (non solo intellettuale) del lettore è condizionata ad un testo “estraneo” che il lettore si deve sforzare di sciogliere ed interpretare. Non basta che sia una lettura, non basta che sia un testo: occorre che sia necessario un “corpo a corpo” tra lettore e testo, che il lettore si impegni a fare suo quel testo superando se stesso ed entrandovi.

p. 117:
L’ospitalità esprime bene l’apertura alare della biblioteca a venire: che sarà orientata, ancora una volta, a comprendere gli estremi, senza nessuna volontà e velleità di ricomporli. Da un lato la biblioteca vorrà essere ospitale verso quelle brulicanti figure dell’alterità, e talvolta dell’alienazione sociale e mentale, rappresentate da chi arriva in biblioteca per trovare un posto caldo, una toilette, un angolo di pace o un momento di compagnia. Dall’altro l’ospitalità sarà dovuta anche ai lettori, ai lettori forti, anch’essi esiliati in biblioteca, e che qui cercano una qualche complicità. In mezzo stanno tutte le più varie declinazioni e incarnazioni della attuale diaspora dell’umanità e della lettura: migranti, pendolari dell’anima, studenti senza studio, lettori tiepidi e non lettoriallo stadio terminale, un universo che ha in comune forse solo l’esperienza, appunto, dell’estraneità.
Però mentre per i lettori forti (o tiepidi) una qualsiasi biblioteca è mediamente bene attrezzata e sa o dovrebbe sapere rispondere ai loro bisogni, di fronte a chi nella biblioteca cerca “semplicemente” uno shelter from the storm è facile non abbia né strutture, né personale, né politiche adeguate. Se anche questa finalità deve rientrare nella mission bibliotecaria non bastano apertura e tolleranza, occorre un ripensamento integrale del servizio.

p. 119:
L’arte di scegliere di fronte all’oppressione, ossia la preferenza per procedure decisionali dialogiche che non siano basate su meccanismi binari del tipo vero/falso ma su una tavolozza più vasta di distinzioni, per esprimere la felicità delle nostre scelte…
Il termine utilizzato – distinzioni – mi richiama alla mente quello dei “distinti” con cui Benedetto Croce cercava di “diluire” il processo dialettico dell’idealismo. Che, a sua volta, richiama l’accezione negativa dei “distinguo”. Distinguere (l’azione di effettuare distinzioni) è quello che fa chi dice: “Non sono razzista ma...” [per citare Mauro Biani: “la banalità del ma”]. La distinzione in realtà è un trucco per disinnescare la dialettica, il confronto, e da ultimo la sintesi. Qui in campo non deve essere la giustificazione della dicotomia vero/falso, quanto piuttosto la necessità di un confronto di posizioni diverse per giungere ad una sintesi. Il mantenimento delle distinzioni al contrario serve all’immobilismo del rimanere, fisicamente o intellettualmente, nella propria bolla rifiutando qualsiasi confronto.

p. 130:
Il “cassetto senza etichetta” è un atto di resistenza, e di dignità, che non va mai sottovalutato. [Ferrieri racconta come in epoche di censura certi testi erano nascosti, raggiungibili unicamente tramite il bibliotecario e/o tramite strumenti anonimi – il cassetto senza etichetta – per sfuggire ai controlli del regime]
Ma è anch’esso, a suo modo, una forma di censura. Certo, forse l’unica risposta ancora peggiore: l’epurazione dei testi. Purtuttavia se l’utente non avesse chiesto al bibliotecario, quei libri, con gli strumenti apparentemente a disposizione, non li avrebbe mai trovati. [Mentre sto trascrivendo mi torna alla mente su questo tema un mio articolo su Bibliotime di oltre vent’anni fa in cui presentavo il romanzo di Mark Laidlaw La terza forza. Ambientazione del libro: un futuro distopico in cui i libri “proibiti” saranno a disposizione di chiunque nelle biblioteche solo per schedare e controllare chi li richieda in lettura.]

p. 181:
In genere, infatti, l’apprendimento trasformativo viene accostato, sia nella teoria che nella pratica educativa, al bonduarywork, ossia al lavoro “sui confini” tra discipline, ambiti e teorie diverse. Siamo in un territorio privilegiato per la biblioteca pubblica che non solo opera sistematicamente per scavalcare confini e per connettere discipline e tecniche di diverso tipo, ma è immersa in una pluralità di sollecitazioni e fondazioni teoriche assai lontane tra loro e a volte difficilmente commensurabili (la biblioteconomia o è comparata o non è).
In questo senso è da riprendere il concetto di biblioteca come ipertesto non tanto come definizione ontologica quanto come precetto etico: la biblioteca deve essere, deve creare ipertesti cioè collegamenti tra tutti i vari testi che la costituiscono, sia direttamente sia potenzialmente, per permettere ai membri della comunità di allargare i propri orizzonti con la creazione di nuovi testi che possano arricchirla.

p. 215:
La specificità delll’etica della lettura è che essa costringe a vedere la lettura e la biblioteca come nodi di relazioni, organismi viventi, territori di esperienza, non solo professionale e non solo libresca. La specificità dell’ecologia della lettura è che pone (anche) sulle spalle della biblioteca il peso del pianeta e del suo consumo di risorse culturali e naturali. L’ecologia della lettura si connette immediatamente, e da molteplici versanti, al tema della sostenibilità della biblioteca. La politica assume i vincoli etici ed ecologici di una lettura e di una biblioteca testualmente e ambientalmente sostenibili, e li traduce in approcci concreti, in scelte e scale di priorità, in costruzione e ricostruzione di ecosistemi educativi e intellettuali protetti. Tre sono le principali dimensioni etico-ecologiche in una politica della lettura: l’etica della lettura, l’etica della biblioteca, […] e l’etica del lettore.
Etica e politica dunque non sono (crocianamente) distinte. Fondamentale rimarcare che l’etica del bibliotecario deve essere anche politica.

p. 229:
La sensibilità della biblioteca è decisiva per esistere e resistere; le sue terminazioni nervose debbono saper cogliere le trasformazioni, e adattarsi adattandole; devono trasformarle in sensori di un sismografo culturale e sociale di estrema precisione e reattività. E la sensibilità diventa sensibilizzazione: la biblioteca non deve solo essere sensibile, ma saper rendere sensibili i corpi inerti che la circondano.
Questa biblioteca sensibile però (o forse iper-sensibile) ha fatto un po’ come la chiocciola: durante l’emergenza si è ritirata nel suo guscio restia a risbucarne fuori. Quale la possibile sensibilizzazione a fronte di tale iper-sensibilità?

p. 237-238:
Un modello “customer-driven” è, ab origine, privo di ogni capacità prospettica, dal punto di vista bibliotecario, perché, oltre all’appiattimento sul minimo comun denominatore del mercato, non vede deliberatamente gli utenti che non ci sono, perché esclusi, disinteressati, non informati. Anche in questo aspetto mostra la sua scelta di servire ciò-che-c’è, passando disinvoltamente dalla gestione dei fondi a quella delle collezioni: di qui la parola d’ordine “dai agli utenti quello che vogliono”, che di fatto equivale alla rinuncia ad ogni politica documentaria, ad ogni scelta da parte della biblioteca, con tanti saluti anche alla professionalità del bibliotecario.
L’attenzione alla “customer satisfaction” non significa automaticamente che il servizio sia “customer driven” nel senso che la soddisfazione immediata del cliente sia l’unico e principale motore del servizio. Intanto la richiesta da soddisfare del cliente va interpretata, esattamente come qualsiasi richiesta di reference, poi esiste una soddisfazione sul breve (la risposta immediata a una richiesta) ma anche una più rilevante soddisfazione sul lungo periodo che influisce sulla fidelizzazione e sulla trasformazione del cliente stesso in strumento di marketing e advocacy, ma infine, più importante di tutto, è l’attenzione alla soddisfazione non solo del cliente attuale ma anche a quella del cliente potenziale in cui si esplica tutta la capacità professionale del bibliotecario e che sicuramente richiede creatività e risorse non triviali.

p. 240-241:
I bibliotecari sono importanti; la biblioteca di più. Il futuro dei bibliotecari non potrà essere assicurato senza uno sviluppo e una trasformazione delle biblioteche. Sicuramente la professione bibliotecaria potrà esistere anche fuoridalle biblioteche (già oggi è così), ma non potrà esistere senza le biblioteche, a meno di sciogliersi nel magma delle nuove professioni della conoscenza e della comunicazione, la cui natura bibliotecaria (anche in senso lankesiano) è tutta da dimostrare.
[Ho scelto a posteriori, per concludere queste note sparse e riflessioni (probabilmente non sempre coerenti ed appropriate), questo passo che mi porta a pensare che almeno su un punto quanto portato da Ferrieri possa emendare e migliorare la biblioteconomia moderna lankesiana: le biblioteche non sono magazzini di libri ma non possono non essere laboratori pulsanti della lettura (la cui etica tripartita – lettura, biblioteca, lettore – è stata sopra riportata) perché la lettura, intesa non solo in senso stretto come lettura di un testo, ma in qualsiasi senso coinvolgendo il concetto blumemberghiano di “leggibilità del mondo”, la capacità di lettura è la capacità fondamentale per i singoli e per la comunità per comprendere e migliorare se stessi/a. Perché la lettura è quello strumento che ci permette di conoscere quello che è altro da noi e quindi progettare non continuamente l’identico che replica se stesso ma l’incontro con il diverso ed il futuro.]

POST SCRIPTUM:
Sull'ultimo numero di AIB Studi (V. 60, n.1, 2020) è uscito un denso contributo di Luca Ferrieri sulla risposta delle biblioteche al lockdown e al nuovo scenario causato dall'emergenza sanitaria: Contro l’attendismo bibliotecario: quadri di un’esposizione. Mi permetto di commentare anche questo, in qualche modo appendice ed aggiornamento del volume.

Ma certo alcune biblioteche (più spesso le medio-grandi, quelle inserite in circuiti funzionanti di cooperazione, quelle metropolitane, quelle dirette da bibliotecari sensibili e intraprendenti), hanno messo in piedi un’appassionata e appassionante serie di iniziative, estratte da un ricco cilindro inventivo e solidaristico dotato anche di notevole flessibilità.
Durante l'incontro alla Biblioteca di Fiesole con David Lankes per la presentazione del suo libro (uscito contemporaneamente a quello di Ferrieri Biblioteche innovative, mi sono permesso di commentare la distanza tra le biblioteche grandi e quelle piccole sull'orizzonte dell'adeguamento al nuovo scenario causato dalla pandemia. Quelle grandi, forti di una struttura propria, e di competenze variegate in grado di supportarsi a vicenda, posseggono maggiori possibilità di rispondere ai cambiamenti richiesti e metabolizzare il nuovo scenario, mentre spesso le biblioteche medio-piccole, gestite in outsourcing o mediante la buona volontà e disponibilità necessaria in una condizione di "one person library" dipendono eccessivamente da amministrazioni e apparati organizzativi spesso non sufficientemente competenti e sensibili per riuscire se non per puro caso a rispondere adeguatamente alle mutate esigenze. Il problema è che si ripropone lo scenario possibile di cattedrali della cultura nel deserto, al posto della più o meno fitta rete di istituzioni capillarmente presenti per supportare le comunità. E questo approfondisce il solco dei "divide" non solo digitali che la pandemia ha messo in luce.

L’attendismo identifica un atteggiamento ricorrente nella storia italiana (e non solo), in parte legato a concomitanti anche se non sovrapponibili fenomeni di trasformismo, revisionismo, opportunismo; un atteggiamento non connotato solo dall’attesa (che può essere scelta saggia, perfino strategica, in circostanze in cui non sono noti molti aspetti consequenzialistici legati all’azione), ma dalla ‘speculazione’ sull’attesa, in modo da favorire certi esiti a scapito di altri. Con questo si evince che l’attendismo è spesso molto più interventista di quel che sembri (anzi storicamente potremmo dire che attendismo e interventismo sono dei falsi nemici, così come in campo bibliotecario l’attivismo e l’attendismo non sono sempre e semplicemente contrapposti). Basti pensare al ruolo che l’attendismo ha rappresentato nella fase storica seguita al 25 luglio e all’8 settembre 1943 (che riecheggia nella assonanza tra le parole d’ordine del ‘tutti a casa’ di allora e del ‘resto a casa’ di oggi): di fronte alla possibilità e all’annuncio di una drastica rottura storica, l’attendismo si assumeva il compito, consapevole o inconsapevole, del deliberato rinvio, facendo affidamento sull’aiuto del tempo (di qui l’istanza ‘temporeggiatrice’) per favorire soluzioni moderate e frenare le componenti più radicali della Resistenza. Lo spirito badogliano si è prolungato nei compromessi del dopoguerra, più o meno giustificati quanto si voglia, fino a costituire una specie di carattere nazionale emergente a intervalli storici. L’attendismo lavora alacremente allo scopo di minare la tempestività delle decisioni necessarie; anche in questo senso più che un nemico dell’impazienza rivoluzionaria si rivela un fautore della accondiscendenza moderata. Magari ci sono state epoche in cui l’attendismo non ha lavorato per il re di Prussia, anche se al momento non me ne vengono in mente; probabilmente in altre circostanze ha avuto migliori frecce al suo arco; sicuramente ha avuto un ruolo positivo nel contrastare una certa mistica dell’azione di stampo dannunziano o guerrafondaio o fascista; ma ora occorre riferirlo al contesto pandemico, senza perdersi in altri corsi e ricorsi.
Tornando quindi al presente bibliotecario, occorre ribadire che dietro alcuni atteggiamenti ‘attendistici’ nella gestione della pandemia ci sono state e ci sono valide spiegazioni che vanno prima di tutto comprese. Non mi riferisco tanto ai ritardi e alle lungaggini delle autorità politiche e sanitarie, che mi sembrano effettivamente difficili da giustificare, anche se possono invocare l’attenuante, non so fino a che punto valida, della generale impreparazione. Penso piuttosto alle difficoltà che molti operatori hanno incontrato nell’agire e di cui non erano punto responsabili: la mancanza degli strumenti, dei dispositivi di protezione, la scarsa conoscenza della malattia e del virus, la incapacità di trapiantare lo smart working in un’organizzazione del lavoro, soprattutto nel pubblico impiego, che aveva in precedenza pervicacemente ostacolato ogni ricorso al telelavoro; la sordità dei datori di lavoro a introdurre misure di sicurezza, scaricando la responsabilità sui singoli e approfittandone in molti casi per licenziamenti o ricorso a lunghi periodi di ferie obbligate. Tutto ciò ha favorito, una tendenza al ritiro, alla pausa, e a volte ad ogni impegno diretto nella gestione solidale dell’emergenza. In buona sostanza la logica dello ‘stato di eccezione’ non ha favorito né la partecipazione, né la responsabilizzazione.
Penso che questo si possa direttamente ricollegare a quanto scritto sopra: dove c'è una struttura con competenze che possono supportarsi e fare rete, l'atteggiamento attendista è più complesso perché deve raggiungere una massa critica per bloccare tutta la struttura, dove invece le dimensioni minori spesso basta un singolo funzionario, magari mai stato al frontoffice a fronteggiare le richieste, le rivendicazioni, le critiche e le lamentele degli utenti, a bloccare tutto in attesa di una mitica e mitizzata conformità alla lettera di leggi e disposizioni.

Non sempre è stata netta la rivendicazione dell’essenzialità della funzione delle biblioteche, della lettura e della cultura, più volte calpestata dai successivi e ondivaghi decreti ministeriali in nome di una riedizione sotterranea dei tremontiani principi per cui ‘con la cultura non si mangia’. I decreti, che di settimana in settimana stilavano l’elenco, spesso contraddittorio, delle cose permesse e di quelle vietate, mostravano in filigrana una gerarchia valoriale dei beni e servizi ‘necessari’, da cui la produzione e distribuzione di libri è stata esclusa, almeno fino alla cosiddetta ‘fase due’. Questa gerarchia evidenziava anche il peso dei gruppi di interesse, economici e politici, verso cui c’è stato un prevalente atteggiamento di subalternità da parte della ‘filiera’ del libro, con l’eccezione dell’AIB e di alcune librerie ed editori indipendenti. Per quanto la rivendicazione dell’essenzialità possa comportare una sorta di trasformazione delle persone in simboli (come hanno sostenuto in un loro intervento i librai del gruppo LED), per quanto le norme sulle chiusure, aperture e riaperture, si siano susseguite in disordine sparso, in assenza di controlli sulle reali condizioni di sicurezza dei luoghi di lavoro, non credo si possa concludere che il richiamo all’essenzialità dei servizi bibliotecari rappresenti un mero esercizio retorico. In questo caso sotto tale sanzione cadrebbe metà dell’elaborazione biblioteconomica mondiale.
Quello che personalmente mi ha dato più da pensare è che sono improvvisamente stati (alcuni) colleghi e colleghe a ribadire la "non essenzialità" del servizio bibliotecario, probabilmente timorosi che in caso contrario fossero stati costretti a riaprire anzitempo le istituzioni e ad affrontare il compito di gestire in modo adeguato il servizio in tale scenario. Il che mi fa un po' malignamente ipotizzare che per alcuni le biblioteche sono un servizio essenziale solo quando fa comodo ai bibliotecari stessi...


L’attendismo è stato anche una causa e un effetto dello stato di abbandono in cui sono state lasciate le piccole biblioteche e i monobibliotecari delle one person library a cui spesso non è rimasta altra scelta che chiudere i battenti e aspettare, letteralmente, tempi migliori.
Esattamente quanto osservato sopra. Ma le biblioteche grandi non possono sopravvivere (se non nell'ottica pre-public library) se non in un'ottica puramente elitaria senza la rete di biblioteche costituita da tante piccole e medie istituzioni diffuse sul territorio che contribuiscono a sollevare le grandi dai servizi di base e contemporaneamente garantiscono il collegamento ad esse di tutto il territorio e non solo della grande area urbana.


È possibile che la risposta attendista si sia verificata anche in forza di una certa confusione tra la necessità di garantire il rispetto delle misure di sicurezza e il ritiro della biblioteca dalla scena pubblica. Le due cose infatti non sono legate, anzi sono in contrasto. Proprio la volontà di mantenere l’immagine della biblioteca come ‘porto sicuro’, comporta un sovrappiù di attivismo, di advocacy. In situazioni difficili come quella odierna la biblioteca dovrebbe mantenere e curare particolarmente il suo rapporto habermasiano con la ‘sfera pubblica’, proprio perché questa è la prima ad essere messa in discussione dal virus, con il distanziamento sociale, i divieti di assembramento e le politiche di contenzione. Le biblioteche dovrebbero reagire «alla acquiescenza dell’opinione pubblica nella fase del lockdown». La sospensione della comunicazione pubblica, facilitata dalla chiusura contemporanea di tutte le istituzioni culturali, dei festival, dei numerosi saloni e fiere del libro in programma, dei teatri, dei cinema, delle piazze di ogni tipo, non è stata compensata e contrastata adeguatamente dalle biblioteche. E non a caso l’attacco al ruolo della biblioteca nella sfera pubblica è uno dei tratti caratterizzanti delle politiche neoliberiste in materia di biblioteche.
Può parere pleonastico, ma sono convinto che la ripetizione in questo caso non solo aiuti ma che proprio sia necessaria quale sottolineatura a ribadire la forza del concetto: il rapporto con la sfera pubblica può avvenire solo nella cura e nella manutenzione della rete che si dipana sul territorio, nel garantire da parte di tutti i nodi del sistema un minimo imprescindibile di servizio.

Si è osservato in molte sedi ed occasioni che il Covid ha fortemente accelerato la migrazione digitale di molte attività svolte dalle biblioteche, determinando innanzitutto un considerevole aumento dei prestiti e degli interprestiti di documenti elettronici. Questo dato è confermato da tutte le prime elaborazioni statistiche che le biblioteche stanno producendo sulla loro attività nel periodo della chiusura per l’epidemia. Tuttavia occorre, a mio avviso, tenere presenti alcuni limiti derivanti dalla situazione pregressa: l’insufficienza dell’alfabetizzazione digitale, l’iniquità del mercato digitale e dei meccanismi di prestito, la scarsa qualità dei prodotti editoriali, l’insistenza su modelli di ebook e di digital lending fortemente improntati al mimetismo analogico più che allo sviluppo delle potenzialità digitali.
Situazione che personalmente facevo rilevare già all'epoca della mia "presidenza" del Comitato scientifico di ReteINDACO. Di fatto l'offerta digitale delle biblioteche pubbliche italiane è in mano a due soggetti privati a loro volta condizionati dalle scelte spesso miopi dell'editoria tradizionale che tendenzialmente vede nelle biblioteche digitali mancate vendite per il settore cartaceo. Questo comporta tutta una serie di limitazioni, penalizzazioni, deroghe a soggetti completamente esterni anche in materia di dati sensibili (come ad esempio Adobe che, per gestire i diritti digitali, ha accesso a dati sensibili sulle letture degli utenti). Lo scenario successivo alla pandemia deve far riflettere sia le biblioteche (a livello ad esempio di associazione professionale) sia i decisori politici sul fatto che la biblioteca digitale non deve essere una raccolta di documenti digitali, tanto meno una raccolta di documenti digitali forniti da qualcun altro di cui le istituzioni fondamentalmente si limitano a pagare per i propri utenti l'accesso, quanto (lankesianamente) vere e propri servizi, collezioni scelte, ordinamento, reference, attività di promozione, ecc. Ed esattamente come la biblioteca può acquistare qualsiasi pubblicazione cartacea pubblicata, i decisori politici devono: impedire agli editori di offrire selettivamente alle biblioteche la propria produzione digitale e prevedere la costituzione di una piattaforma nazionale di biblioteca pubblica digitale perché non ha senso in ambito digitale (almeno a livello di collezione di base e specialmente per testi legati all'istruzione ed alla documentazione) che quanto messo a disposizione da una biblioteca possa differire da quello messo a disposizione di un'altra a volte anche distante pochi chilometri. Ed infatti Ferrieri prosegue:
Se questo bisogno sia stato o meno soddisfatto lo si potrebbe/dovrebbe vedere dai dati relativi ai prestiti digitali. Essi sono in aumento, ma non così tanto, e sicuramente non in modo proporzionale all’aumento della domanda. I prestiti digitali sono stati infatti lamentevolmente frenati dalla inadeguatezza del sistema di digital lending imposto dagli editori e non sufficientemente contrastato dai bibliotecari, basato su una assurda ‘analogia con l’analogico’ e sulle mille trappole dei sistemi proprietari (sistema one copy, one user, DRM, impossibilità di restituzione anticipata dei documenti digitali, difficoltà nel trasferire o usare i testi su diversi device, nel copiare, citare, stampare, sottolineare, condividere, ecc.). Chiunque abbia usato in questo periodo (ma anche prima) il sistema di prestito digitale delle grande maggioranza delle biblioteche italiane di pubblica lettura sa che l’offerta di titoli è notevolmente ridotta, che per i titoli maggiormente richiesti le code di attesa sono proibitive, che l’operazione è spesso ostacolata da procedure non propriamente amichevoli, non alla portata di tutti, generando parecchia delusione tra i lettori, e contraddicendo nei fatti la volontà di vicinanza professata a parole durante la distanziazione epidemica. Le biblioteche hanno ragionevolmente reagito alzando, nel periodo di chiusura, i tetti di download disponibili, che erano molto bassi, molto di più del prestito cartaceo, ma questo non ha cambiato di molto la situazione per i limiti generali del sistema e la carenza di titoli disponibili.

Concludo condividendo in pieno (e riportando) le riflessioni conclusive di Ferrieri:
Per fare del quotidiano un’invenzione è necessaria la biblioteca. Con tutta la sua creatività, la sua esperienza maker, la sua filosofia del fare, del leggere e del far leggere, la sua prossimità, la sua porosità. Perché abbiamo bisogno che la sfera del quotidiano irrompa nella vita della biblioteca, completando un processo di secolarizzazione e di appropriazione collettiva che è in corso da qualche secolo. Ma abbiamo anche bisogno che la biblioteca arricchisca l’esperienza del quotidiano, attraverso la sua lettura trasgressiva e decostruttiva, la sua vigile attenzione al dettaglio. La biblioteca con-vivente, che esce dal confronto con l’epidemia e con la malattia, è vicina alla visione olistica proposta da Maurizio Vivarelli e Margarita Pérez Pulido, ma anche alla prospettiva naturalistica e organicistica di Ranganathan. La biblioteca olistica non è quella che si ricava dalla somma dei suoi servizi, o dalla pur necessaria visione sistemica delle sue funzioni, o dalla tradizionale visione umanistica: è la biblioteca che, come dice Wayne A. Wiegand in Part of our lives, entra a far parte della vita delle persone. È quella che invece di analizzare «il ruolo dell’utente nella vita della biblioteca», cerca di vedere «qual è il posto della biblioteca nella vita dell’utente» e magari di cambiarlo.

POST SCRIPTUM 2
Considerazioni di Luca Ferrieri 

Prima di tutto voglio ringraziare Francesco Mazzetta per l’attenta lettura del mio libro e per l’ampio e puntuale commento che ne ha fatto. Non posso qui riprendere tutti i punti toccati per non abusare della pazienza di chi legge e dell’ospitalità del sito. E anche perché sono d’accordo con quasi tutte le osservazioni di Francesco. Mi limito quindi ad affrontare brevemente uno dei punti centrali nella sua analisi, e anche quello che forse maggiormente si presta a una produttiva discussione: la valutazione del contributo biblioteconomico di David Lankes. Adotterò qualche volta lo schema citazionale usato da Francesco (molto utile, a mio avviso, perché permette un confronto ravvicinato tra testo e commento), scusandomi per le eventuali autocitazioni.

Il riferimento è dunque a Lankes e in particolare al suo ultimo libro (tardivamente tradotto in italiano in questi mesi: come ricorda Francesco, l’edizione originale è del 2013). Sull’importanza dell’opera di Lankes, sul suo carattere innovativo concordo pienamente. Il ruolo della comunità, le biblioteche come conversazioni, come luoghi del fare, come makerspace, come strutture creatrici di conoscenza, lo spostamento del baricentro dalle collezioni alle relazioni (la biblioteca come “luogo dei legami”, direbbero Damien e Melot) – anche se non si deve mai dimenticare che le collezioni sono relazioni: questo e molto altro che troviamo nei suoi libri fa parte di quel “cambio di paradigma” che auspico ne La biblioteca che verrà. Ammiro anche lo stile colloquiale e antierudito con cui Lankes tratta argomenti di grande spessore scientifico.

Perché allora non me la sento di sottoscrivere integralmente l’affermazione di Francesco secondo cui “un paradigma forte nuovo c’è, ed è esattamente quello di Lankes”? Perché secondo me all’elaborazione lankesiana manca qualcosa di decisivo per rappresentare pienamente il necessario, e radicale, cambiamento di paradigma. 

Elenco, semplifico ed estremizzo:

a) la comunità di cui parla Lankes è un termine prevalentemente neutro, tecnico, socialmente indeterminato. Lankes la idolatra, ma non la descrive, non la radica storicamente; quando prova a farlo (ad es. in Biblioteche innovative, loc. 1803 dell’ediz. elettronica), il concetto assomiglia pericolosamente all’idea di gestione partecipata che in Italia è stato messo in pratica, ed è fallito, nella stagione delle “commissioni di biblioteca” (riposino in pace). Per rispondere a una delle domande di Francesco (riferita alla citazione di pag. 65), tra il “mondo del comune” e la “comunità” di Lankes rischia appunto di non esserci alcuna relazione stringente. In sostanza la nozione di comunità, che già ha una storia culturale controversa, rischia di diventare poco più di un modo alternativo di chiamare l’utenza, reale e potenziale. E’ lontana dall’indicare una politica delle alleanze, una linea di gestione dei conflitti, uno spartiacque, quale potrebbe essere, per esempio, la questione della proprietà intellettuale e dei diritti digitali, tema che pure Lankes lambisce continuamente.

Non c’è “soggetto” in Lankes, oltre i bibliotecari; e questo peso gettato sulle loro spalle rischia di essere eccessivo e soprattutto di abbandonarli a una responsabilità e a una solitudine superiore a quella che già vivono. Naturalmente sono consapevole che il problema del soggetto nella strategia del cambiamento è di portata colossale e non lo si può affrontare né con le semplificazioni né con le nostalgie. Però ci sono due fenomeni importanti che si stanno verificando intorno alle biblioteche: all’esterno la crescita di uno zoccolo duro, di utenti-sostenitori (testimoniato anche alle innumerevoli associazioni di “amici della biblioteca” che sorgono), e all’interno quella di una forza lavoro precarizzata, colta, nomade, che è parte di una più vasta area di lavoratori della conoscenza. La saldatura tra queste due componenti potrebbe avere un impatto notevole, e inatteso, sulla questione del cambiamento e della valorizzazione delle biblioteche.

b) del resto l’orizzonte politico-culturale di Lankes è “liberal-democratico” (lo ripete parecchie volte), ed è quindi comprensibile questa reticenza. Ma lo è anche questa domanda: se l’orizzonte liberal-democratico è quello che ha generato l’idea di public library, con i suoi valori e i suoi limiti, come potrà essere anche quello che la traghetterà fuori dalla sua crisi? Il rapporto di Lankes con l’area radical dei bibliotecari è tiepido: egli ha spesso sostenuto le loro posizioni ma ha ricevuto anche qualche tirata d’orecchi, come quando ha forzato i picchetti di uno sciopero bibliotecario per tenere una conferenza sui bibliotecari radicali. Kendra K.Levine ha scritto a questo proposito sul suo blog: “Personalmente sono stanca di sentirmi spiegare come sarà il futuro della mia professione mentre sto lottando per renderlo possibile”.

c) l’ormai classica definizione dell’Atlante (“La missione dei bibliotecari è quella di migliorare la società facilitando la creazione di conoscenza nella propria comunità”) a me continua a sembrare eccessivamente generica (cos’è il miglioramento? cosa vuol dire facilitare?). Anche il termine “benessere” è abbastanza equivoco. Tra l’altro non possiamo neanche tradurlo welfare perché Lankes parla proprio di well-being (p. 23 dell’edizione originale).  E’ vero che in Biblioteche innovative Lankes si sforza di spiegare la direzione del miglioramento, e così fa anche in queste slide. E tu, Francesco, lo hai fatto molto bene nel tuo articolo sul Manifesto. Ma trovo che ci sia ancora molto da lavorare, a partire dal termine, miglioramento, che non allude precisamente a un cambio di paradigma.

d) l’altrettanto famosa e fulminante affermazione di Lankes (“una stanza piena di libri è semplicemente un armadio, mentre una stanza vuota con dentro un bibliotecario è una biblioteca”), anche spogliata dalla sua voluta paradossalità, mostra, come ho argomentato alle pp. 239 e seguenti del libro, un alto tasso di riduzionismo (quello di ridurre la biblioteca al bibliotecario) e un’idea mitica e letteraria (quasi borgesiana) del bibliotecario stesso. Bisogna ringraziare Lankes per la sua attenzione alla figura professionale e al futuro lavorativo dei bibliotecari, ma questo nella sua visione avviene “a scapito” delle biblioteche. Lankes su questo non lascia spazio a molti dubbi, come si vede anche nella slide 7 e segg. di questa sua presentazione.

e) ma il punto principale di debolezza, a mio parere, sta nella mancanza di una politica della lettura, per dirla con uno dei concetti che ritornano più frequentemente nel mio libro, anzi della mancanza della lettura tout court, anche se la parola viene usata abbastanza spesso. Non riprenderò l’esempio dell’invettiva dell’Atlante contro i poster sulla lettura (di cui ho parlato a p. 230 del libro), ma anche in Biblioteche innovative ogni riferimento alla lettura è diminutivo, se non avversativo, a partire dal titolo contenuto nel capitolo 3 (Io amo leggere… Non proprio). La lettura è legata alla vecchia “narrazione” bibliotecaria (loc. 252), la questione se la biblioteca debba occuparsi della “lettura di svago” (termine, anche qui, semidispregiativo) viene rimessa alla comunità (loc. 1281 - comincio ad aver paura di una comunità cui viene demandata questa questione, che nella stragrande maggioranza delle biblioteche italiane del XXI secolo ha una risposta del tutto scontata). Lankes commenta la mission di una biblioteca che si candida ad essere anche un “luogo dove i bambini possono scoprire la gioia della lettura” in questi termini: “abbiamo davvero bisogno di qualcuno che indottrini i bambini?” (loc. 1391). La lettura che interessa Lankes è solo l’abilità che serve per “costruire conoscenza” (loc. 1271), è la “tecnologia basilare” per “usare i libri” (loc. 1591). Ecc. ecc.

Se si vuole una sintesi della posizione di Lankes sulla lettura si può incorniciare questa frase: “ancora troppe biblioteche cercano di sopravvivere invece di rinnovarsi, e promuovono l’amore per la lettura piuttosto che l’indipendenza culturale dei gruppi di persone cui sono al servizio”. Come si possa pensare che l’amore per la lettura confligga con l’indipendenza culturale è un mistero lankesiano.

Però Lankes ci insegna una cosa fondamentale, che è il mantra che ripete ad ogni pagina, e anche nel titolo inglese del suo libro: dobbiamo “esigere di più” dai bibliotecari, dai decisori, e anche dalla comunità. Non gli saremo mai abbastanza grati per questo richiamo e per questo schiaffo alla pigrizia intellettuale.

Commenti

  1. Ministro domani mattina!!!!! Fatto 100 lo sforzo per fare un qualsiasi atto 98% carta 2% verifica sulla valida dell'operazione e controllo della cosidetta "fatto ad opera d'arte"!!!

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