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La mia vita dopo Robert M. Pirsig

Quando, nei giorni scorsi, ho visto tra le novità della libreria il libro di Robert M. Pirsig Sulla Qualità (sottotitolo solo sul frontespizio: Scritti scelti e inediti; Adelphi, 2024) ho compiuto un vero e proprio viaggio mentale nel passato.

L’anno era il 1982/’83, il mio primo anno di frequenza della Facoltà di Magistero dell’Università di Parma. All’epoca la composizione del piano di studi era molto più liberale di quella odierna ed era necessario l’inserimento solo di 5 corsi in istituti fondamentali sui 19 esami necessari per discutere la laurea. Per il sottoscritto le aree erano: Filosofia, Psicologia, Sociologia, Letteratura italiana e (ovviamente dato che sono laureato proprio in questo) Pedagogia. Non mi ricordo quale fosse il motivo, ma all’inizio non volevo affrontare subito il corso di Pedagogia, così inizialmente rimase fuori dalla mia bozza di piano di studi, ma dovetti fare i conti con le reazioni di amiche e amici usciti dalla prima lezione del corso di Pedagogia I tenuto dal professore Sergio De Giacinto. Raccontarono lo scalpore che suscitò entrando in classe, appoggiando gli occhiali sulla cattedra e domandando alla vasta platea (si trattava di uno degli insegnamenti fondamentali per chi voleva laurearsi in Pedagogia) di – per lo più – matricole: “che cosa sono questi?”. Qualcuno più coraggioso o incosciente si faceva avanti alzando la mano: “degli occhiali?”. “No”. “Delle lenti?”. “No”. “Un oggetto?”. “No”. E così via, finché De Giacinto, alla classe esausta e intimorita, spiegava che era una cosa diversa a seconda del punto di vista: per un ipovedente lo strumento per vedere meglio, per un negoziante uno strumento di lavoro e guadagno, per un ottico uno schermo per distorcere i raggi luminosi, per un fisico un assemblaggio di materiali vari, ecc. Ne seguiva quindi la domanda: “Che cos’è la Pedagogia?” rimandando le risposte alla lezione successiva. Lezione successiva a cui partecipavo con estrema attenzione (anche se allora non avrei ancora saputo rispondere alla domanda, perlomeno in modo soddisfacente per De Giacinto) e, sull’onda dell’entusiasmo inserivo prontamente Pedagogia I nel piano di studi. Saltiamo per un momento l’aggancio a Pirsig ed arriviamo al giorno dell’esame (26 maggio 1983: il primo esame della mia carriera universitaria). De Giacinto sapeva come terrorizzare gli studenti: intanto all’inizio degli esami esclamava di fronte agli astanti che chi non aveva frequentato aveva studiato e chi aveva frequentato aveva capito e poi, che lo studente o la studentessa avessero frequentato o meno, se subodorava una preparazione (esclusivamente) mnemonica, iniziava a domandare cosa ci fosse scritto in quella o in quell’altra pagina del suo libro – Educazione come sistema (La Scuola, 1977) – che era il principale testo d’esame. Quando succede una cosa del genere allo studente che sta sostenendo l’esame prima che tocchi a te, non è che ti fai avanti esattamente con tranquillità… Comunque, non so se si tratti di una qualità o di un difetto, non mi sono mai fatto intimorire dagli esami e non ho mai chiesto di farli a porte chiuse pensando che: se venivo cacciato fuori perché non avevo studiato abbastanza sarebbe stata solo colpa mia, mentre se venivo cacciato fuori perché il professore faceva lo stronzo almeno avrei messo in guardia gli altri studenti che mi seguivano. Comunque l’esame andò abbastanza bene anche se in realtà non ricordo le domande che mi fece, almeno fino all’ultima. Durante l’anno, una delle attività che De Giacinto aveva assegnato erano dei lavori di gruppo su testi consigliati (ed uno di questi era quello di Pirsig, ma questo lo vedremo dopo) ma io non mi sentivo (ancora) a mio agio con i lavori di gruppo ed optai per la elaborazione di una tesina sul rapporto tra fantascienza e pedagogia. L’ultima domanda di De Giacinto all’esame fu esattamente relativa alla tesina e mi chiese, secondo me, a quale dei livelli dell’educazione (istruzione, educazione, pedagogia) si rapportasse la fantascienza. Ci riflettei su e poi ne risposi uno (non chiedetemi quale, non lo ricordo). “No. Riprova”. A questo punto iniziai ad innervosirmi e tentai con un altro. “No. Riprova”. Comprensibilmente ero ormai nel panico ma dissi la terza ed ultima opzione, vedendo mentalmente il mio voto scendere. “No. Riprova”. A quel punto mi fermai a riflettere. Ed ebbi la mia prima illuminazione. La fantascienza (in realtà qualsiasi genere letterario, ma a me piaceva allora e piace adesso particolarmente la fantascienza, che comunque nell’ottica educativa ha il pregio di far immaginare situazioni possibili) è in rapporto con tutti e tre i livelli dell’educazione, ognuno in un modo peculiare. Mi ricordo di essermi lanciato in una disquisizione sul tema che fu interrotta da un “va bene, può andare” e, sul libretto degli esami, mi ritrovai col primo Trenta e lode della mia carriera universitaria che, a mio modo di vedere, certificava che, se magari non ero il pulcino più sveglio della nidiata, almeno sapevo all’occorrenza mettere in moto le rotelline della materia grigia. E mi ritrovai pure con l’idea che l’Università non è la continuazione delle scuole superiori, ma il posto dove si fa ricerca e si cerca di ampliare la conoscenza (e a seguire avrei tolto corsi anche importanti che invece si mettevano nel solco della lezione da apprendere in maniera puramente mnemonica). Ma ho accennato ai lavori di gruppo. In uno di essi in cui c’erano anche miei amici il libro su cui lavorare era Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, all’epoca unico libro pubblicato dall’autore statunitense Robert M. Pirsig. Pur non comparendo nei “credit” del gruppo, partecipai a diversi dei loro incontri e rimasi così affascinato dal libro che, senza indugio, lo lessi.
 
Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta è stato pubblicato in originale nel 1974 e per la prima volta da Adelphi in italiano nel 1981. Si tratta di un romanzo autobiografico dove l’autore racconta di un viaggio fatto in moto col figlio Chris e con due amici attraverso l’America. Ma assieme alla narrazione del viaggio fisico c’è anche la narrazione del viaggio mentale compiuto dall’autore nel proprio passato di insegnante e di ricercatore del concetto metafisico della Qualità, attività che lo avevano portato all’esaurimento nervoso, alla follia, al ricovero coatto e alla terapia con l’elettroshock fino a quando è emersa una persona diversa. L’autore chiama il vecchio sé pre-follia Fedro, dal personaggio del dialogo platonico. Fedro mi ricordava parecchio, nel suo modo di affrontare l’insegnamento, lo stile di Sergio De Giacinto. Come ad esempio quando è alle prese con una studentessa secchiona ma priva di fantasia come nel seguente passaggio:

Fedro si era dato a grandi innovazioni. Aveva avuto dei problemi con gli studenti che non avevano niente da dire: in un primo momento aveva pensato che fossero pigri, ma poi dovette ricredersi. Non trovavano niente da dire e basta.

Una di loro, una ragazza con gli occhiali dalle lenti spesse, voleva scrivere una relazione di cinquecento parole sugli Stati Uniti. Fedro, prevedendo lo smarrimento che un proposito del genere le avrebbe causato, le suggerì, senza ombra di ironia, di limitare l'argomento a Bozeman [la città sede del College dove insegnava Fedro].

Quando venne il momento di consegnare la relazione la ragazza non la portò; era molto turbata. Si era scervellata, ma non aveva trovato niente da dire.

Fedro aveva già parlato di lei con i suoi insegnanti precedenti, che gli avevano confermato l'idea che si era fatto della ragazza. Era molto seria, disciplinata e studiosa, ma estremamente ottusa, assolutamente priva di qualsiasi scintilla di creatività. I suoi occhi, dietro le lenti spesse, erano quelli di una secchiona. Ed era sconvolta dalla sua incapacità in modo disarmante, al punto che per un attimo nemmeno lui trovò niente da dire. Poi se ne uscì con una proposta bizzarra: "Limiti l'argomento alla strada principale di Bozeman". Fu un lampo di genio.

La ragazza annuì docilmente e uscì. Ma subito prima che cominciasse la lezione successiva Fedro se la trovò davanti in lacrime, angosciata da qualcosa che covava già da molto tempo. Ancora una volta non trovava niente da dire. Non capiva perché, se non le veniva in mente niente su tutta Bozeman, le dovesse riuscire di pensare qualcosa su una sola strada.

Fedro era furioso. "Lei non guarda!" le gridò. Si ricordò della propria espulsione dall'Università perché aveva troppo da dire. Per ogni fatto c'è un’infinità di ipotesi. Più si guarda, più si vede. La ragazza non guardava affatto, eppure, chissà perché, questo non le era chiaro.

"Limiti l'argomento alla facciata di un edificio della strada principale di Bozeman. L'Opera House. Incominci col mattone in alto a sinistra".

Dietro gli occhiali gli occhi della ragazza si spalancarono.

Arrivò alla lezione successiva con l'aria confusa e gli consegnò una relazione di cinquemila parole sulla facciata dell'Opera House. "Mi sono seduta al chiosco degli hamburger li di fronte," gli disse "e ho incominciato a descrivere il primo mattone, poi il secondo, e, una volta arrivata al terzo, mi veniva tutto facile e non riuscivo più a smettere. Gli altri credevano che fossi matta e continuavano a prendermi in giro, ma ecco qua. Non riesco a capire".

E nemmeno lui, ma nelle sue lunghe passeggiate per le strade della città ci ripensò e concluse che evidentemente la ragazza era vittima dello stesso blocco che aveva paralizzato lui il primo giorno di insegnamento. Era bloccata perché cercava di ripetere cose già sentite, proprio come lui il primo giorno aveva cercato di dire quello che aveva già deciso di dire. E alla ragazza non veniva in mente niente perché nulla di quello che ricordava valeva la pena di essere ripetuto. Stranamente, non si rendeva conto che poteva guardare le cose coi propri occhi senza tener conto di quello che avevano detto gli altri. L'aver limitato l'argomento a un solo mattone aveva annientato il blocco, perché in quel caso le osservazioni non potevano essere che sue.

Quel Fedro avrebbe benissimo potuto essere questo Sergio De Giacinto. Quel Fedro riemerge dalla follia non cercando la Qualità sulle vette ma nelle piccole cose, come la cura della propria motocicletta, nell’atteggiamento “Zen” (Pirsig, scoprii poi, si era ispirato, per il titolo e non solo, al libro di Eugen Herringel Lo Zen e il tiro con l’arco, anche quello pubblicato da Adelphi nel 1975) della cura delle cose che ci circondano e che servono per la nostra vita quotidiana. Nella parte filosofica del libro, Pirsig racconta della lotta di Fedro contro la dicotomia tra tecnica e arte, tra classico e romantico, tra soggetto e oggetto. Dicotomia che viene superata con il concetto di Qualità, un concetto al di là della definizione ed anteriore ad entrambi i poli: non un effetto della relazione tra soggetto e oggetto ma la causa, il motore immobile di tale relazione. In quest’ottica Fedro riscrive un passo del Tao Te Ching:

La qualità che può essere definita non è la Qualità Assoluta…
I termini che le possono venire attribuiti non sono termini Assoluti.
È l’origine del cielo e della terra.
Quando ha un nome è la madre di tutte le cose…
La Qualità è dappertutto.
Ed è inesauribile!
Insondabile!
Come l’antenata di tutte le cose...


Pirsig risolve dunque consapevolmente la dicotomia con un monismo assoluto, con un monismo che si richiama alle filosofie orientali, in particolare agli studi compiuti da giovane in India, ma che ha riflessi anche teosofici considerando che dal suo punto di vista Qualità e Dio sono termini interscambiabili.

La lettura di Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta indubbiamente mi cambiò la vita (alla faccia di chi sostiene che leggere i libri è una perdita di tempo): provocò una netta sterzata del mio piano di studi verso la filosofia; mi fece interessare (da un punto di vista filosofico e politico) alla follia, in particolare alla schizofrenia; mi accese l’interesse per le religioni filosofiche orientali ed in particolare per il taoismo. Per quanto riguarda l’interesse per la follia non posso non ricordare la tesina che produssi, nell’anno accademico 1985/’86, per l’esame di Storia delle dottrine politiche sull’ideologia rivoluzionaria collegata al movimento dell’antipsichiatria (esemplificato, more solito, da un romanzo di fantascienza: Gli orrori di Omega di Robert Sheckley) che mi fruttò un altro Trenta e lode di cui vado particolarmente fiero. Il tema della follia inoltre fa da sfondo al mio primo corposo articolo per il Mucchio Selvaggio che prendeva spunto dal film di Barry Levinson Rain man per parlare appunto di autismo e follia (collegando il tutto naturalmente ad un romanzo di fantascienza: Noi marziani di Philip K. Dick). Molto tempo dopo, e senza che mi accorgessi del rapporto sotterraneo che legava l’interesse professionale al libro, fece sì che mi appassionassi al tema del controllo di qualità applicato ai servizi bibliotecari, tanto che la Biblioteca di Fiorenzuola dal 2006 fino all’esaurimento dell’esperienza negli anni della crisi economica a livello globale è stata una delle biblioteche che hanno costituito il coordinamento nazionale delle Biblioteche Italiane Certificate, nato su impulso della Biblioteca nazionale centrale di Firenze, dalla Biblioteca dell’Assemblea legislativa di Bologna e dalla Biblioteca di Scienze statistiche dell’Università degli studi di Bologna. Come culmine di tale attività posso vantare la giornata di formazione attivata a Piacenza come sezione Emilia-Romagna dell’Associazione Italiana Biblioteche nel 2012 (qui la pagina di presentazione con collegate le slide presentate dai relatori). La certificazione di qualità ISO 9001 la vedevo (me ne rendo conto ora retrospettivamente) come un’applicazione del principio di Qualità pirsighiano ai servizi bibliotecari. Insofferente come sempre a tutto il contorno burocratico della certificazione, cercavo di esaltare tutte quelle tecniche messe a disposizione dall’iter di certificazione per capire quanto dello sforzo messo nella realizzazione del servizio fosse sentito e riconosciuto dall’utente/cliente. In questo ambito è interessante osservare come il concetto di Qualità non debba comprendere solo il dualismo soggetto-oggetto, ma una tripartizione soggetto produttore-oggetto-soggetto fruitore. Il problema di questa tripartizione è esattamente che la qualità percepita nella relazione tra soggetto produttore (nel nostro caso chi organizza ed eroga i servizi bibliotecari) e l’oggetto (i servizi bibliotecari) non sempre è uguale anzi preoccupantemente spesso è diversa dalla qualità percepita nella relazione tra oggetto e soggetto fruitore (l’utente/cliente). Il punto cardine, l’obiettivo principale del Sistema qualità, è esattamente questo: accordare le due diverse percezioni al fine di consentire a chi gestisce i servizi di fornire all’utente/cliente un servizio migliore possibile e che venga riconosciuto come tale. Migliore possibile pertanto sia nel verso della realizzazione sia in quello della fruizione. Cosa avrebbe detto Pirsig di questa situazione? Probabilmente per cercare di capirlo occorre andare a sfogliare il secondo libro di Pirsig, Lila: un’indagine sulla morale (pubblicato in originale nel 1991 e in italiano, sempre da Adelphi, nel 1992). Lila, memore dell’impatto avuto su di me dal libro precedente, l’ho atteso con trepidazione e letto non appena disponibile in edizione italiana. Ma devo confessare che è stato una delusione. Intanto è assente l’elemento autobiografico, soprattutto in quanto collegato al tema della follia e, dal punto filosofico, il monismo Zen a cui arrivava in Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta si riapre in un dualismo: quello tra qualità statica e Qualità dinamica. Riprendendo il problema della sintonia tra le diverse percezioni tra il produttore e il fruitore del servizio, Pirsig probabilmente commenterebbe che questa mancanza di sintonia esiste perché le due percezioni si riferiscono alla qualità statica, legata a schemi che hanno a che fare con valori sociali ed intellettuali che vanno a confliggere. La sintonia va ritrovata all’interno della Qualità dinamica, che non è più una semplice misurazione di benefici offerti ed attesi ma piuttosto il flusso reale del servizio nel suo divenire.

Col nuovo Sulla Qualità la speranza era di trovare “scritti scelti e inediti” che chiarissero ed approfondissero l’idea pirsighiana della Qualità anche in rapporto a aspetti concreti come quello sopra riportato relativo alla qualità dei servizi. Il libro, in considerazione della morte dell’autore nel 2017, è stato realizzato dalla seconda moglie di Pirsig, Wendy K. Pirsig, estrapolando da testi da lettere, interviste e conferenze ma anche dai due libri, per dare una forma “sistematica” alla trattazione. La curatrice presenta così l’organizzazione:

Il libro è suddiviso in cinque sezioni: “Qualità”, che racconta la scoperta di Bob della centralità di questo concetto; “Valori”, il cuore dell’argomento trattato in Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta; “La Metafisica della Qualità”, il sistema filosofico esposto in Lila; “Dharma”, che esplora le analogie tra la Qualità dinamica e l’induismo, il taoismo e il buddhismo; e “Atteggiamento”, dove si cerca l’essenza del non-dualismo attraverso la mettā, un termine usato nel buddhismo – o l’amore, come è chiamato in Occidente. I lettori troveranno che il materiale delle varie sezioni si fa via via più impegnativo.

Nonostante l’avvertenza, lo stile aforistico adottato, riprendendo quelle parti, anche estremamente brevi, che si adattano all’organizzazione prevista, da la sensazione di lasciare qualsiasi argomentazione al livello superficiale, di non entrare mai ad incidere nel corpo della Metafisica della Qualità, di non lanciare mai la barca nella navigazione del vasto oceano ma limitandola al piccolo cabotaggio. In questo senso, più che un’introduzione a chi non conosce ancora Pirsig (che farebbe meglio a leggere direttamente Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta che non è un saggio filosofico e che porta il lettore alle vette ardue della Qualità in un relativamente comodo viaggio in moto), Sulla Qualità è un “centone” per chi ha letto e amato Pirsig e vuole tornare a trovare e a leggere le parole e le idee che tanto hanno significato nella vita. E questo è un peccato perché sarebbe interessante avere strumenti per vedere alla prova la Metafisica della Qualità con altri ambiti filosofici e non solo. Ne sintetizzo qui tre: la dicotomia tra classico e romantico come figlia della dicotomia (falsa) tra apollineo e dionisiaco; il concetto di “attualismo”, il concetto di “flow”.

Per la dicotomia tra classico e romantico Pirsig narra dello studio accanito di Fedro della filosofia greca, ma purtroppo sembra aver tralasciato quanto portato in luce da Giorgio Colli, cioè che la dicotomia tra apollineo e dionisiaco (matrice di quella considerata da Pirsig) è fin dall’origine apparente (ne ho scritto a proposito di Freud e di Caillois).

Il concetto di “attualismo” elaborato da Giovanni Gentile (non a caso accusato di monismo) è vicino al concetto di Qualità, anche se da una prospettiva maggiormente soggettiva e politica, mentre la Qualità pirsighiana assume piuttosto aspetti religiosi e mistici. Resta il fatto che in entrambe le posizioni c’è un atto/fare che produce le particolarità del mondo che in quanto tali sono astratte, sono sogni.

Infine il “flow” è la condizione, studiata da Mihály Csíkszentmihályi, in cui ci troviamo quando siamo completamente immersi in una determinata attività. Estrema fortuna ha avuto il concetto in ambito videoludico, ma il concetto è applicabile a qualsiasi attività, anche alla manutenzione della motocicletta, nel modo descritto da Pirsig.

Per questo, concludendo, l’utilità di Sulla Qualità non è offrire squarci o prospettive inedite, non è quello di approfondire o illuminare temi, ma di riportare alle due opere di Pirsig e di indurre chi le ha lette a rileggerle perché indubbiamente se, come a me, hanno cambiato loro la vita, la rilettura offrirà una lente per capire come e quanto e perché la loro vita sia cambiata. Onestamente invece dubito possa – da solo – offrire qualcosa a chi Pirsig non abbia mai letto: nonostante l’organizzazione, resta eccessivamente frammentario e spesso, anche in (parti di) interviste o conferenze, legato direttamente alle due opere di Pirsig.

Robert Pirsig olia il tornio nella sua officina, 1975 (da Sulla Qualità)




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