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Contro l'abilismo

La lettura del libro (libretto in realtà: si tratta di 62 pagine) Decostruzione antiabilista. Percorsi di autoeducazione individuale e collettiva di Claudia Maltese e Gresa Fazliu, appena pubblicato da Eris, è un dovere imprescindibile. Le due autrici spiegano benissimo come abusiamo del concetto di disabilità, ma soprattutto come questo abuso sia collegato all’esaltazione del suo opposto: l’“abilismo”. La disabilità – spiegano – non è una descrizione della persona, ma piuttosto la descrizione del rapporto della persona con l’ambiente umano. Al contrario la vulgata abilista dipinge le persone definite disabili come sfortunate e bisognose pietisticamente di aiuto. Aiuto che si declina in una duplice dimensione: quella dell’inspiration porn e quella del supercrip.

Inspiration porn è l’esaltazione nelle persone con disabilità di attività e/o risultati che sono ritenuti del tutto comuni per le persone senza quelle disabilità e la loro presentazione come fonte di ispirazione per tutte le persone con disabilità e non (se ci sono riusciti loro ce la possono fare tutti).

Supercrip è il prendere persone con disabilità che si sono distinte in qualche campo e presentarle come esempio eccezionale proprio in relazione alla loro disabilità.

Maltese e Fazliu, raccontando episodi personali e inserendoli nel contesto generale della socialità, mostrano come non esiste una “normalità” ed ognuna e ognuno di noi, in una fase o nell’altra della propria vita, per periodi più o meno lunghi, soffre di disabilità: da neonate e neonati e da bambine e bambini, da anziane e anziani, quando soffriamo di qualche patologia, eccetera. Per questo l’attenzione sociale non deve essere rivolta “abilisticamente” all’aiuto alla disabilità, quanto, più generalmente, alla maggiore inclusività possibile di architetture, di servizi, di atteggiamento mentale. A partire dalla scuola che – più ancora della famiglia, che resta ambito “privato” – è il primo luogo e modello di socializzazione e di educazione ai modelli sociali. Maltese e Fazliu sottolineano anche come l’abilismo sia presente in contesti apparentemente insospettabili come le comunità femministe o LGBTQI+ dove la rivendicazione dei diritti avviene troppo spesso dimenticando quelli relativi all’inclusività

La lettura indispensabile del libro di Maltese e Fazliu mi porta tuttavia a proporre una integrazione ed una critica.

L’integrazione è nel poco coraggio nel portare l’argomentazione antiabilista in campo politica. Maltese e Fazliu rivendicano servizi inclusivi realizzati dalla comunità e non “abbandonati” alla buona volontà di volontarie e volontari e di mecenate e mecenati. Ma non sottolineano come questo “abbandono” sia la cifra dell’azione politica legata al concetto di “meritocrazia” (non a caso dall’attuale Governo messo al centro pure di un Ministero: quello dell’Istruzione) che l’abilismo alimenta e da esso è alimentato. Seguendo coerentemente l’argomentazione di Maltese e Fazliu dobbiamo prendere coscienza che è irrealistica l’idea di un punto comune di partenza per tutte e tutti da cui ognuna e ognuno può compiere un percorso più o meno lungo e fruttuoso in base alle proprie capacità e al proprio impegno. Al contrario ognuna e ognuno di noi parte fin dalla nascita con diverse condizioni fisiche, biologiche, economiche, sociali ed è quello il materiale che ha da gestire a prescindere dalle più o meno grandi capacità e dal più o meno grande impegno. Per questo la società civile e i servizi offerti dalla comunità devono essere non legati ad una visione abilistico-meritocratica ma piuttosto garantire il più possibile condizioni di vita piena e attiva a tutte e a tutti. Rimando, sul tema meritocrazia, ad un mio post di qualche tempo fa per ulteriore approfondimento.

La critica è relativa allo stupro della lingua italiana che le due autrici operano in nome del principio (per altro condivisibile) di rifiutare l’uso del “maschile sovraesteso”. Quando si legge: “i rapporti con lə altrə” o “personaggə disabili” (e mille altri potrebbero essere gli esempi in un testo pur così breve) non si può non storcere il naso se si ha anche un minimo di affetto per la lingua italiana. Nel primo caso la frase al maschile sarebbe “i rapporti con gli altri” e al femminile “i rapporti con le altre”: come si vede non è sufficiente sostituire le vocali finali di nome e articolo con la (famigerata) “schwa” perché i due articoli sono nei due casi completamente diversi e la forma usata dalle autrici può ricondurre solamente alla forma femminile (alla faccia della sbandierata sollecitazione all’inclusività). Ancora peggiore l’esempio successivo che pretende che la parola “personaggio” possa avere una forma sia maschile sia femminile: a questo punto pretendiamo tale bipolarità da qualsiasi nome e scriviamo solamente “librə”, “scatolə”, “scarpə”, “palazzə”, ecc.? Forse una soluzione meno brutta l’avevo incontrata in alcuni testi statunitensi che utilizzavano esclusivamente le forme femminili o che utilizzavano alternativamente la forma femminile e quella maschile. Mi sembra, per concludere, che la necessaria inclusività della rappresentazione (nei social, nei media, nella comunicazione) non passi dallo stravolgimento – troppo spesso ipocrita e soprattutto sterile - della lingua ma piuttosto nel suo uso accorto e preciso che che renda possibile a tutte e a tutti riconoscere problemi e valutare soluzioni.

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