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Di pirati e bibliotecari

Sto leggendo Warez: The Infrastructure and Aesthetics of Piracy di Martin Paul Eve (Punctum Books, 2021, scaricabile liberamente dal sito dell’autore: https://eve.gd). Il libro è un’analisi accurata della “Warez scene”, cioè della pirateria informatica digitale. L’analisi in particolare è condotta dalle prospettive: informatica, sociologica, politica. Procedendo con la lettura mi accorgo però che mancano due prospettive che al contrario si rivelerebbero fondamentali: quella “filosofica” e quella biblioteconomica.

Questa lacuna è possibile riscontrarla quanto Eve (Professore di Letteratura, Tecnologia ed Editoria presso Birkbeck, Università di Londra e Visiting Professor di Digital Humanities presso la Sheffield Hallam University) spiega le regole interne di selezione e messa in condivisione delle opere digitali attraverso le procedure previste dalla “FLAC scene”, cioè da quella parte della pirateria digitale dedita alle opere musicali (FLAC sta per Free Lossless Audio Codec: è un “codec” audio libero con compressione dati “lossless”, cioè senza perdita di qualità - da Wikipedia). Eve resta sconvolto da alcune regole apparentemente paradossali:le opere caricate sui server pirata devono dimostrare la loro provenienza da supporti non digitali (vinili, CD, DVD, ecc.) tramite foto incluse dei supporti originali che comprovino l’effettivo possesso con la presenza di cartelli o etichette con il nickname di chi le carica mentre sono esclusi caricamenti di opere native digitali. Le opere caricate devono essere digitalizzate in un formato preciso (FLAC appunto) e devono essere rinominate seguendo precisi standard che ne consentano la ricerca e la verifica per evitare duplicazioni.

Partiamo da quest’ultimo elemento: il nome del file deve essere nel seguente formato: “Artist-Title-SOURCE-FLAC-YEAR-GROUP” (descrizione minima) e “Artist-Title-(CATALOGUE)-LANG-ADDITIONAL-TYPE-SOURCE-FLAC-YEAR-GROUP” (descrizione massima) per cui l’esempio riportato da Eve è: “VA-Masterpiece_Created_By_Andrew_Weatherall-3CD-FLAC-2012-DeVOiD” che corrisponde alla descrizione di questo album. Inoltre all’interno dei tag previsti da FLAC nella registrazione di ciascuna delle tracce (che devono essere presenti separatamente) va inserito il genere per cui la comunità ha predisposto una varietà di termini come “A Cappella, Acid, Acid Jazz, Acid Punk, Acoustic, AlternRock, ecc.”. È evidente qui a qualsiasi bibliotecaria/o che i problemi che stanno fronteggiando e cercando di risolvere i pirati sono di natura eminentemente bibliotecaria. Il nome del file non è altro che una embrionale descrizione catalografica e i tag inseriti in ogni traccia sono parole chiave che evidentemente soffrono la mancanza a monte di un thesaurus. Dato che l’archiviazione su un qualsiasi server prevede che le opere digitalizzate possano essere ricercate (sia per potere essere scaricate da “utenti”, sia per il controllo preventivo o a posteriori di presenza di opere duplicate) è necessario individuare un sistema di descrizione il più possibile standardizzato (sia relativamente ai contenuti che all’ordinamento degli stessi) che ne consenta il confronto ed il reperimento veloce anche mediante strumenti automatizzati. Problemi eminentemente biblioteconomici anche quelli relativi all’edizione: come capire se due edizioni apparentemente diverse sono invece la stessa (ed evitare di consumare spazio sul disco per il relativo caricamento) e quando anche di fronte a due edizioni apparentemente identiche è invece opportuno distinguere e caricare entrambe.

Ma la parte forse più interessante - e che stupisce maggiormente Eve - è che una comunità digitale (anzi quella che per la cultura contemporanea è considerata come la più estremisticamente digitale) come quella dei pirati si fissi in maniera così ferma sulla testimonianza che le opere caricate provengano da originali fisici in possesso o comunque passati per le mani di chi li ha “rippati” (=digitalizzati) e poi caricati sui server pirata. La parte più interessante perché chi può spiegare la “filosofia” che sottende a questa pratica apparentemente paradossale a Eve, nato nel 1986, è un “boomer” come il sottoscritto. La pratica che stupisce tanto Eve è infatti assolutamente chiara e ovvia a chi come me conosce e per certi versi condivide la “filosofia” del collezionismo musicale. Occorre distinguere i “semplici” appassionati di musica dai collezionisti musicali. Per un “semplice” appassionato di musica quello che interessa è il contenuto - cioè la musica - e non il tramite tecnologico (live, vinile, cd, streaming, ecc.) con cui tale contenuto gli viene fornito. Per il collezionista musicale al contrario il supporto è un elemento vitale e co-costitutivo dell’esperienza di ascolto. In particolare per la generazione nata dal dopoguerra fino alla fine degli anni ‘60, testimone della nascita della controcultura giovanile che si esprimeva utilizzando la musica come uno dei canali preferenziali, era prassi abbastanza comune l’acquisto e l’ascolto condiviso di opere musicale. Nel gruppo di amici ognuno aveva i propri artisti preferiti, di cui acquistava le uscite e che passava/prestava agli amici. Tale ascolto condiviso raramente si traduceva in ascolti multipli: era semplicemente un modo per poter ascoltare più opere musicali di quante se ne potesse acquistare. Per un collezionista l’opera non è solo il suo contenuto, ma questo è emotivamente inscindibile dal suo supporto. Per questo la registrazione (all’epoca su cassetta) è di valore se chi l’ha fatta, l’ha fatta direttamente dal supporto originale.

Cosa abbastanza interessante questa pratica è prevalentemente maschile - così come la “Warez scene” -: la parte femminile era (è?) molto meno interessata alla valorizzazione del supporto dando vita a catene di scambi di registrazioni (ancora: all’epoca cassette) con quelle che sostanzialmente oggi vengono chiamate “playlist”: raccolte di brani, spesso di autori vari, senza particolari preoccupazioni per la fonte.

Questa analogia però dovrebbe far sorgere un dubbio: perché l’acquisto e ascolto condiviso non ha suscitato e non suscita nemmeno oggi alcun dubbio di reato mentre sostanzialmente la stessa condotta a livello digitale porta alla criminalizzazione di chi la compie? Eve sottolinea con forza la distanza tra la pirateria “stradale” (chi realizza copie di opere protette da copyright per venderle e quindi ricavarne illecito guadagno) e quella della “Warez scene”, assolutamente contraria alla monetizzazione delle digitalizzazioni messe a disposizione e che si basa piuttosto sul rispetto guadagnato mettendo a disposizione un numero maggiore di opere, di opere prima che esse raggiungano il mercato o di versioni speciali non realizzate per il mercato. Elementi tutti che non riguardano la dimensione criminale ma esattamente quella del collezionismo. Tra l’altro le digitalizzazioni realizzate non vengono messe a disposizione del cosiddetto mondo del web, ma piuttosto rinchiuse in server il cui accesso è ristretto esclusivamente ai membri della comunità che possono accedervi solo a seguito di invito. Evidentemente quindi la differenza tra una comunità di acquisto/ascolto analogico e la “Warez scene” è esclusivamente la natura digitale del bene culturale scambiato. Se io acquisto un bene culturale su supporto analogico posso legalmente donarlo o prestarlo a chiunque io voglia e per quante volte io voglia (nel caso ovviamente del prestito) mentre se accedo (“accedo” attenzione: non “acquisto” perché del bene digitale normalmente si acquista l’accesso, non il possesso) a un bene digitale tutte queste opzioni sono escluse dall’EULA (=End User Access Agreement=accordo di accesso per l’utente finale) che dobbiamo firmare (normalmente mettendo una spunta sulla casella “accetto”: azione banale ma che ha valore vincolante a livello contrattualistico). Da questo punto di vista la nostra indignazione di cittadini/e e ancor più di bibliotecari/e dovrebbe rivolgersi non verso i pirati della “Warez scene” quanto piuttosto verso editori che impongono modelli di contratto per le risorse culturali digitali che sarebbero completamente rifiutati da chiunque per le controparti analogiche e per il mondo della politica che non riesce/non sa legiferare in maniera opportuna di fronte a tali soprusi commerciali. Per non andare lontani è sufficiente citare il caso Hachett (a cui si aggiungono HarperCollins, Wiley, e Penguin Random House) v. Internet Archive dato che proprio è di ieri la notizia che una Corte distrettuale di New York ha dato ragione agli editori. Riassumiamo qui la vicenda traducendo quanto riporta in merito il sito di Electronic Frontier Foundation:

Internet Archive è una biblioteca digitale senza scopo di lucro, che conserva e fornisce accesso a manufatti culturali di ogni tipo in formato elettronico. CDL (il Prestito Digitale Controllato, che è la pratica contro cui hanno fatto ricorso gli editori) consente alle persone di prendere in prestito copie digitali dei libri per due settimane o meno e consente il prestito solo di tante copie quante Internet Archive e le sue biblioteche partner possiedono fisicamente. Ciò significa che se Internet Archive e le sue biblioteche partner hanno una sola copia di un libro, allora solo un utente alla volta può prenderlo in prestito, proprio come qualsiasi altra biblioteca. Attraverso CDL, Internet Archive sta contribuendo a promuovere la ricerca e l'apprendimento aiutando i suoi utenti ad accedere ai libri e mantenendo i libri in circolazione quando i loro editori non hanno più interesse a ripubblicarli.

Quattro editori hanno citato in giudizio l'Archivio, sostenendo che CDL viola i loro copyright. Nella loro denuncia, Hachette, HarperCollins, Wiley e Penguin Random House affermano che il CDL è costato alle loro aziende milioni di dollari ed è una minaccia per le loro attività.

Si sbagliano. Le biblioteche hanno pagato agli editori miliardi di dollari per i libri nelle loro collezioni e stanno investendo enormi risorse nella digitalizzazione per preservare quei testi. CDL aiuta a garantire che il pubblico possa utilizzare appieno i libri che le biblioteche hanno acquistato e pagato. Questa attività è fondamentalmente la stessa del tradizionale prestito delle biblioteche e non crea nuove perdite agli autori o all'industria editoriale. Alle biblioteche non è mai stato richiesto di ottenere permessi o pagare costi aggiuntivi per prestare libri. E in pratica, i dati disponibili mostrano che CDL non ha e non danneggerà i profitti degli editori.

Internet Archive e le centinaia di biblioteche e archivi che supportano CDL stanno semplicemente cercando di servire i propri clienti in modo efficace ed efficiente, prestando i libri uno alla volta, proprio come hanno fatto per secoli. La legge sul diritto d'autore non impedisce tale uso lecito e corretto. Anzi, lo supporta.

Per quanto immagino che bibliotecari/e siano in stragrande maggioranza in completa sintonia col comunicato EFF, una Corte distrettuale ha giudicato diversamente, e lo ha fatto non perché particolarmente malvagia quanto perché ha ritenuto tale decisione in maggiore rispetto delle norme e dei contratti vigenti. In questo senso forse è opportuno che bibliotecari/e inizino a guardare con occhi diversi ai pirati della “Warez scene” cercando di capire: quali spazi vi sono per interpretare le norme in modo da favorire il servizio, cercando di fare lobby con quanti più attori possibili nella filiera del libro ed in generale del documento digitale per promuovere leggi che tutelino il servizio universale di accesso alla cultura, imparare a riconoscere gli spazi interstiziali presenti in contratti e normative per tentare di sfruttarli a proprio vantaggio.

Alla fine, un po’ per scherzo e un po’ no, viene da chiedersi: non sarà che il futuro della professione bibliotecaria sia di diventare (almeno un po’) pirati?
Martin Paul Eve

Commenti

  1. Ciao Francesco, arrivo qui dalla lista nazionale. Credo che mi ci vorrà una tripla lettura ma trovo estremamente intrigante il tuo discorso. Da una tua lettura alla controversia editoriUSA vs InternetArchive attraverso uno dei fondanti della biblioteca, il prestito. In effetti non ho mai capito perchè il prestito di un oggetto digitale (che sia nativo o -zzato) debba essere considerato diversamente da un prestito analogico (che è anche più lungo!). Mi pare che gli editori siano rimasti molto indietro, che non riescano a dominare la materia e soprattutto che non abbiano intenzione di spendere per digitalizzare loro tutto il proprio catalogo, il che risolverebbe la questione. Libri che non hanno interesse economico a ristampare: e con i prezzi della produzione cartacea alle stelle, figurarsi! la via digitale gli spiana la strada, ma se non lo fanno in casa non vogliono che nessun altro lo possa fare... mentre invece le conoscenze diffuse rendono risibili certi arroccamenti, mi viene in mente la linea Maginot....

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  2. Ti segnalo che volevo commentare come Serena Sangiorgi, dato che ci conosciamo in real life per via professionale, ma il sistema mi ha mandato una mail di avviso che stavo mandando le password ad un sito "insicuro" quindi voleva che controllassi le password salvate. Quindi commento come Anonimo, e spero che non succeda niente. Mah! che stress

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    1. Ho approvato anche questo commento, ma forse era solo per me: in caso fammi sapere che cancello ed eventualmente segnalo la meternità di quello sopra. Grazie comunque per la lettura e per il tuo commento che ovviamente condivido.

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  3. Ciao Francesco! Anche io arrivo qui dalla lista di AIB-CUR. Ora che ci penso credo di aver fatto un orale per il concorso di Piacenza con te, o sbaglio?
    Articolo molto interessante, cercherò di recuperare il libro di Eve.
    Per quanto riguarda le regole di caricamento degli album però, la logica è diversa. Si tratta di utenti audiofili fissati con la qualità audio. Per accertarsi che quello sia davvero un FLAC, e non un semplice file mp3 convertito in FLAC (operazione del tutto inutile), richiedono la foto del cd fisico. Questo succede anche perchè spesso queste comunità si basano sullo scambio, anche di materiale inedito, raro e reperito per vie non proprio legali. Una persona potrebbe essere disposta a rischiare qualcosa per avere del materiale e poi scambiarlo, ma vuole assicurarsi di non essere fregato da una persona che gli da in cambio materiale di pessima qualità.
    Quindi per me il valore di quel rip sta nell'offrire agli altri il file originale, senza decine di rimaneggiamenti.

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    1. Ciao e grazie per il commento! Per il concorso: non saprei, solo dal nome... Se sei arrivato all'orale comunque complimenti, è stato un vero massacro per i candidati (da 1500 a 4...) ma anche per i commissari.
      Questa storia del convertire mp3 in FLAC non l'avevo pensata: sono troppo ingenuo! Per quanto mi riguarda ormai sto comprando solo quei CD che voglio nella collezione per motivi sentimentali o appunto perché li voglio scambiare con amici (che rifiutano per principio il formato digitale).
      Non è detto che prima o poi non torni al vinile e addirittura l'indie sta sempre più tornando alle vecchie cassette. Corsi e ricorsi (avrebbe commentato Vico)!

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