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Bernard-Henri Levy e le guerre dimenticate

Non sono molto appassionato alla cultura francese - musica, letteratura, cinema e filosofia - ma ovviamente ci sono delle eccezioni (giusto per nominarne qualcuna: adoro Izzo e Truffaut, tra gli altri). Soprattutto non sono fondamentalista a tal punto da non lasciarmi incuriosire. E così ecco, sere fa, a seguire la puntata di Piazza Pulita su La7 per un annunciato servizio di Fanpage sulle infiltrazioni dell’estrema destra nelle manifestazioni no vax. Prima del servizio, poi rivelatosi non particolarmente interessante, c’è stata la presentazione del nuovo libro (allora in uscita) e film del “filosofo, giornalista, attivista e regista” (così lo definisce la casa editrice italiana che lo pubblica: La nave di Teseo) Bernard-Henri Levy: Sulla strada degli uomini senza nome. Presentando il suo lavoro, una raccolta di reportage realizzati per Paris Match dalle guerre dimenticate del pianeta mentre era in corso la pandemia, Levy sottolineava la delusione per un’Europa incapace di sollevare lo sguardo dall’orizzonte economico per misurarsi a livello globale sui fronti della politica, dei diritti, dell’ecologia.

Scaricato l’ebook non appena disponibile, l’ho letto in pochi giorni. Se si sopravvive all’egocentrismo levyano che dedica metà del libro a spiegare perché e percome da brillante studente di filosofia con una carriera accademica assicurata ha preferito seguire i sui maestri - buoni e cattivi - alla ricerca delle condizioni materiali delle persone, spingendosi fin da giovane a conoscere i luoghi umanamente torridi del pianeta. In alcuni di essi ritorna, per questo suo ultimo libro, constatando, a distanza di decenni cosa sia e cosa non sia cambiato, cosa cambiato in meglio e cosa in peggio.

Una lettura necessaria, anche a costo di doversi sorbire Levy che racconta come, in visita in Rojava, mette in comunicazione col suo iPhone Mazloum Abdi (comandante in capo delle Forze Democratiche Siriane - SDF -, l’esercito dell’Amministrazione autonoma del Nord Est della Siria, normalmente chiamato Rojava) con Macron. Seguendo in maniera costante l’evoluzione della situazione in Rojava attraverso canali ufficiali e testimoni sul campo posso dire con relativa certezza che dal quel colloquio non si siano sviluppate particolari conseguenze o relazioni e quindi tutto lascia il sospetto che serva a Levy a far sapere ai lettori non tanto degli sviluppi dei rapporti internazionali tra Francia e Rojava quanto che ha sul suo cellulare il numero del presidente francese alle cui chiamate quest’ultimo prontamente risponde. Ma se sopravviviamo alla prima metà del libro (Ciò in cui credo) possiamo leggere otto reportage (Ciò che ho visto) in cui, fatto salvo l’egocentrismo, Levy dimostra sguardo acuto, capace di vedere tutti gli aspetti (non di rado contraddittori) dei paesi martoriati che racconta: la Nigeria, dove i cristiani sono massacrati da una etnia di pastori integralisti islamici; il Kurdistan, diviso nei territori di Siria, Iraq e Iran (oltre a quello turco, che però Levy non visita, e più avanti vedremo anche il perché); l’Ucraina con la guerra civile contro i separatisti del Donbass; la situazione in Somalia e particolarmente a Mogadiscio (anni dopo l’abbandono del campo da parte degli USA); il Bangladesh e la situazione di estrema povertà dopo l’indipendenza; la situazione dei profughi nella porta d’Europa collocata nel campo di Moria sull’isola greca di Lesbo; la Libia della guerra civile e la situazione in Afghanistan dopo il frettoloso e disastroso ritiro delle truppe occidentali. Sopra si è detto della capacità di Levy di vedere (e mostrare ai lettori) tutti i lati della situazione. Evidente in particolare questo nel reportage dall’Ucraina dove, se sottolinea come i separatisti siano armati e sostenuti militarmente dalla Russia, non nasconde neppure la presenza nei reparti speciali dell’esercito ucraino di forze ultranazionaliste e neonaziste.

Segnalo, per concludere, che degli otto scenari raccontati da Levy almeno quattro di essi vedono la presenza destabilizzante (tramite il sostegno più o meno aperto alle forze integraliste e terroriste dell’islamismo radicale in contrasto a qualsiasi trattato internazionale) della Turchia di Erdogan: ovviamente il nord della Siria ed il Kurdistan iraniano ed iracheno dove sono continui gli attacchi e gli sconfinamenti soprattutto ad opera delle truppe mercenarie jihadiste finanziate ed armate dalla Turchia; la Nigeria dove il consolato turco finanzia e sostiene non troppo di nascosto l’etnia fulana, addestrata da Boko Haram e lanciata ad eseguire sanguinosi massacri contro i cristiani presenti nel paese; il campo profughi sull’isola di Lesbo, riempito prevalentemente dai profughi siriani che la Turchia contribuisce a produrre col suo sostegno alle forze islamiste in Siria e che usa come arma di ricatto nei confronti dell’Europa per farsi finanziare quello che è il secondo più potente esercito della NATO; la Libia, infine (infine per quanto riguarda il libro, perché l’espansionismo turco è presente anche altrove: come non ricordare almeno la guerra per il Nagorno-Karabakh tra Armenia e Azerbaigian?), dove l’espansionismo erdoganiano sostiene il regime di al-Sarraj con l’obiettivo di porre sotto la sua ala il paese e soprattutto le sue risorse energetiche (che, forse vale la pena di ricordarlo, prima della detronizzazione di Gheddafi erano nell’orbita delle aziende italiane). Proprio in Libia Levy rischia la pelle in un agguato. Dopo averne raccontato gli sviluppi come se ci trovassimo in un film action, Levy riflette sul perché proprio in Libia abbia corso i maggiori rischi. E la conclusione è esattamente congruente alla sua impossibilità di portare una testimonianza diretta dal Kurdistan turco: le forze del regime di Erdogan imbavagliano e sopprimono qualsiasi voce critica o contraria ad esso, tanto più se vicina al popolo curdo. Queste le riflessioni di Levy su quanto accadutogli in Libia:

"...errore che stiamo facendo lasciando ancora una volta campo libero alla Turchia e alle sue ambizioni islamo-fasciste. Riguardo l’urgenza che la Francia riequilibri la sua posizione in una guerra civile dove l’errore non è solo quello di abbandonare il campo, ma anche quello di preferire la peste al colera. Oltre al progetto, se quello che ho appena detto non fosse possibile, di fare sì che ci sia almeno una voce francese che lanci una parola di fratellanza e di conforto da questa terra che la Francia ha aiutato a liberare. Queste idee, lo sapevo, non potevano piacere ai giannizzeri locali del neo sultano Erdoğan, che di recente, in occasione della caduta dei Fratelli musulmani in Egitto e del colpo di stato di al-Sisi mi ha fatto il temibile onore di indicarmi come uno dei responsabili, aizzando i suoi fedeli alla vendetta. Ma ciò che nel mio entusiasmo (e forse nella mia ingenuità) non avevo immaginato, era che nel momento stesso in cui comunicavo al ministero dell’Interno di Tripoli la mia intenzione di scrivere un reportage, si sarebbe messa in moto una macchina infernale. Il ministro Fathi Bachagha che, in quanto primo poliziotto del paese è anche l’uomo forte del regime, è uno dei pochi ad avere espresso il desiderio che l’UE e Parigi bilancino l’influenza di Mosca e di Ankara; ma deve comunque fare riferimento al primo ministro Fayez al-Sarraj, che è una marionetta dei turchi. E cosa fa l’ufficio di al-Sarraj, appena saputa la cosa? Organizza una prima fuga di notizie su un giornalaccio algerino, che fa titoli sul “criminale sionista che torna sul luogo del crimine”; poi una seconda, su pagine Facebook turche o del Qatar, dove si trova nel dettaglio l’itinerario, per altro in parte fasullo, che ho dovuto comunicare. Da cui l’isteria dei social che mi presentano ora come un emissario della Francia, complice del suo chiaro impegno a fianco delle forze di Haftar; ora come un provocatore, un guerrafondaio, venuto a contribuire alla distruzione di un grande paese arabo; ora, tanto per gettare altro fango, come un doppiogiochista che trama per la vittoria dei Fratelli musulmani…"

Questo è quanto è evidente non ad un politico o a un diplomatico legato alle convenienze ed agli interessi internazionali, ma ad un filosofo e giornalista che non accetta compromessi e racconta quanto il suo acume gli permette di vedere. Fino a quando permetteremo all’espansionismo neo-ottomano di finanziare il terrorismo islamista che mette a rischio tutti, islamici compresi?




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