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Il peso della coerenza

 


Sto leggendo l'autobiografia di Sakine Cansiz: Tutta la mia vita è stata una lotta (Mezopotamien/UIKI Onlus, 2015-2016-2018). Sakine Cansiz, aka Sara, è stata una patriota curda, fondatrice, assieme ad Abdullah Öcalan del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), ed assassinata a Parigi, probabilmente dai servizi segreti turchi (anche se il delitto non è mai stato chiarito), assieme ad altre due attiviste curde, Fidan Doğan e Leyla Söylemez, il 9 gennaio 2013. In particolare il secondo dei tre volumi in cui è suddivisa la sua autobiografia, è dedicato agli undici anni (dal 1979 al 1990) passati da Sakine Cansiz nelle prigioni turche per la sua attività politica.

In particolare voglio qui sottolineare un episodio, proprio all’inizio della sua detenzione nel carcere di Diyarbakir. Lei scrive:

Discutemmo molto sul significato dei regolamenti che il nemico [secondini ed amministratori della prigione come rappresentanti dell’oppressione dello stato turco nei confronti dei lavoratori e dei curdi, in particolare dopo il colpo di stato militare del generale Kenan Evren nel 1980] aveva imposto, e su quale scopo si prefiggeva attraverso di essi. Tutti avevano ormai capito che non si trattava solo del riconoscimento della turchità o della preghiera prima del pasto: “Bismillahirrahmanirrahim. Buon appetito. Allah sia lodato, che il nostro esercito e la nostra nazione possano continuare a esistere”. Inizialmente si era cominciato con l’appello “per motivi di sicurezza”. I prigionieri dovevano rimanere in piedi e venivano contati fila per fila. Più tardi, ognuno doveva dire il proprio numero ad alta voce. Seguivano il giuramento alla bandiera e l’inno nazionale. 

In questo modo il nemico ti mette in riga, per poterti controllare passo dopo passo. Perdi la tua identità curda e vieni militarizzato. Vieni “turchizzato” e manipolato. Sono i primi segnali che non sei più te stesso. Non è finita quando affermi che sei “turco”.Arrivi perfino a beffarti della “turchità”, mentre lo dici. Il nemico vuole prenderti la tua identità, per questo ti prendi gioco della sua sacra “turchità”. E che sarà mai? Tu dici: “Io sono una rivoluzionaria”. Ma non finisce così, né per il nemico né per te. Per il nemico si tratta solo di piegare la tua volontà. (p. 165-166)

Può sembrare un prezzo leggero da pagare - dirsi turchi piuttosto che curdi - per non finire in isolamento, per ottenere qualche piccolo privilegio. Ma le cose non sono così semplici. Poche pagine prima Sakine Cansiz racconta come è stata accolta nel carcere di Diyarbakir dal responsabile:

[Esat Oktay Yldiran, governatore della prigione di Diyarbakir dopo il colpo di stato turco del 1980] Si fermò davanti a me e chiese: “Come ti chiami?”. Risposi: “Sakine”. “Sei turca?” “No, sono curda”. Mi diede uno schiaffo brutale. La fatica del viaggio, i pestaggi nel corridoio e questo schiaffo, fu troppo. Persi i sensi. [...]

[Dopo che le compagne di Sakine subiscono lo stesso trattamento e si dicono turche per non essere a loro volta picchiate, dopo una perquisizione, dopo un primo interrogatorio] Esat si voltò verso di me e mi diede all’improvviso un altro schiaffo. “Sei turca?”, chiese. “No. Per prima cosa sono una rivoluzionaria. Nella rivoluzione l’origine non ha molta importanza, ma io sono curda. Se fossi turca, indubbiamente lo ammetterei”, risposi. “Oh guarda, oh guarda”, disse Esat. Si fece serio. “Non voglio sentir parlare di curdi. Mettetela a terra”, ordinò ai soldati, che eseguirono il suo ordine immediatamente. La prima bastonata sui piedi me la diede lui stesso. Contai i colpi nella mia mente. Uno, due … quindici … venti … proseguì. Il bastone risalì le mie gambe. Rinunciai a contare.

Ad un certo punto sentii come provenire da lontano un filo di voce: “È morta?”.

Il tentativo di violentare l’identità del prigioniero per costringerlo a collaborare mi ricorda un episodio emotivamente intenso di Star Trek: The Next Generation: Il peso del comando (parte II) (11. episodio della 6. stagione). In esso, il capitano Picard viene catturato dai cardassiani durante una missione segreta e torturato dal suo carceriere Gul Mardred per ottenere informazioni sulla Flotta Stellare. Il modus operandi del carceriere cardassiano non è diverso da quello turco: per minare la forza di volontà accende nella cella 4 luci e chiede a Picard di affermare che ce ne sono 5. Se riuscisse in tale compito ovviamente instillerebbe nella resistenza psicologica del capitano una mina pronta ad esplodere ed a fare altre concessioni e rivelazioni pur di non sottostare alle torture ed alle privazioni a cui viene sottoposto. In realtà, però, il culmine della vicenda arriva alla conclusione, quando Picard, ormai liberato dal suo equipaggio ed in salvo sulla sua nave si confida col consigliere Deanna Troi:

Picard: ...quello che non ho messo nel rapporto è che alla fine mi aveva dato una scelta tra una vita confortevole o altre torture. Non dovevo fare altro che dire che io vedevo cinque luci, ma in effetti nella stanza ce n’erano solo quattro. 

Troi: Lei non l’ha detto.

Picard: No. Però lo stavo per fare: gli avrei detto qualunque cosa… qualunque cosa… Ma quello che è incredibile… è che dentro di me ero assolutamente convinto di vedere… cinque luci.




La distruzione dell’identità come strumento di “addomesticamento”. L’esempio reale di Sakine Cansiz e quello immaginario del Capitano Picard ci presentano comportamenti eroici che, nonostante tutto, non si lasciano piegare a questa violenza. Sono esempi che tutti vorrebbero essere altrettanto in grado di seguire, anche se forse molti di noi preferirebbero alle percosse, al dolore, alla tortura, apparentemente piccole ammissioni, apparentemente inessenziali e che non dicono nulla né di noi né di quello che ci sta a cuore, come ammettere di essere turchi o che ci sono cinque luci nonostante ce ne siano in realtà solo quattro. Ma non sarebbe altro che piegarci all’arbitrio dei torturatori. Il primo passo verso quello che Sakine Cansiz nel suo libro chiama, apertamente, tradimento.

Sakine Cansiz e il Capitano Picard non si piegano ad ammettere quello che considerano sbagliato. Tale comportamento però è diverso da quello dei ribelli che hanno assaltato Capitol Hill il 6 gennaio scorso nell’assoluta convinzione che Trump fosse stato vittima di brogli elettorali? O di quelli che sfidano la pandemia e le malattie in generale assolutamente convinti che i vaccini possano condurre all’autismo ed a mali ben peggiori? In cosa si differenza l’ostinazione degli uni da quella degli altri? Perché si può considerare la prima eroismo e l’ultima follia?

Forse solo perché da una parte abbiamo persone che resistono alla tortura ed alla violenza a costo della propria stessa incolumità fisica, mentre dall’altra abbiamo al contrario la pratica della stessa violenza. La ribellione dei QAnon o dei no-vax non è eroismo perché non si oppone ad una forza che tenta di soggiogarli ed anzi sono loro stessi ad applicare forza nei confronti di altri (5 morti e decine di feriti, rinvenimento di armi ed esplosivi pronti per essere utilizzati; situazione di rischio non solo per se stessi me per compagni potenzialmente immunodepressi).

Forse qualcuno potrebbe sostenere che Sakine Cansiz sia per certi versi assimilabile ai rivoltosi statunitensi: appartenente ad un partito rivoluzionario e coinvolta in attività di propaganda contro lo stato turco. Eppure questa obiezione puzza di forzatura. Se non ci giriamo dall’altra parte abbiamo ogni giorno di fronte a noi testimonianze su come lo stato turco stia ledendo i diritti umani e i diritti civili imprigionando giornalisti e politici democraticamente eletti, producendo profughi ed utilizzandoli come strumento di ricatto per farsi finanziare dall’Europa, invadendo stati sovrani come la Siria o la Libia per tornaconto geopolitico, finanziando le milizie islamiche per utilizzarle nelle guerre per procura come in Nagorno-Karabakh. Negli Stati Uniti vediamo al contrario variopinti (e sarebbero pure folcloristici se non tentassero con le armi di deviare un processo democratico) personaggi aizzati da oltre quattro anni di palesi fake news propalate dal loro paladino. 

Per questo mi sembra che la coerenza - sempre comunque un peso ed una croce - debba essere misurata col metro del dubbio e della vita reale. Non con certezze inossidabili, mai messe alla prova, ma al contrario col continuo confronto con la realtà, con l’applicazione sistematica del principio del dubbio. Solo chi per primo mette alla prova le proprie certezze, può essere sufficientemente credibile nel difenderle. 

Per certi versi sarebbe il caso di recuperare il binomio michestaedteriano tra persuasione come ricerca autentica dell’essere nel mondo e retorica come adagiamento inautentico in spiegazioni di comodo. Ma per questo occorre un ulteriore approfondimento (e magari una rilettura a distanza di studi e di esperienze) del testo michelstaedteriano...


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