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I nostri valori, rivisti

Michael Gorman, già direttore dei servizi bibliotecari alla Henry Madden Library della California State University di Fresno, presidente dell'American Library Association, curatore della seconda edizione delle Anglo-American Cataloguing Rules e della relativa revisione, è anche autore di svariati libri tra cui, nel 2000, di Our Enduring Values. Librarianship in 21. Century (tradotto in Italia col titolo I nostri valori a cura di Mauro Guerrini per Forum Editrice nel 2002), vincitore dell'ALA Highsmith Award nel 2001 per la migliore opera di biblioteconomia, assai discusso a livello internazionale e fonte di ispirazione per molte bibliotecarie e bibliotecari tra cui il sottoscritto. Nel 2015 è uscita una nuova edizione del libro, appositamente riscritta dall'autore, dal titolo Our enduring values rivisited: librarianship in an ever-changing world pubblicata anche in italiano l'anno scorso, sempre a cura di Mauro Guerrini, col titolo I nostri valori, rivisti. La biblioteconomia in un mondo in trasformazione (Firenze University Press).
Subito il desiderio di verificare quale fosse stata l'evoluzione del testo e dei valori a suo tempo proposti mi ha indotto a rileggere la prima edizione e a metterla a confronto con la nuova. Qui di seguito un po' di note e riflessioni da questa duplice ri-lettura.
Anticipo subito che i punti su cui mi pare opportuno soffermare la riflessione sono 4:
  • i videogiochi
  • le biblioteche digitali
  • il confronto Gorman vs. Lankes
  • il bene superiore.

I videogiochi
A p. 18 (2. ed.) Gorman scrive:
...Twitter, Facebook, Instagram e i videogiochi potranno sì arricchire e vivacizzare le esistenze di molti (incluso un numero significativo tra bibliotecari e utenti della biblioteca), ma difficilmente aggiungeranno qualcosa al bagaglio conoscitivo necessario alla comprensione e alla saggezza. Ciò non vuol dire che le biblioteche sbaglino a fare uso dei social media, a incoraggiare i videogiochi, a installare le stampanti 3D o a coinvolgere le proprie comunità in ogni altro modo, tecnologico o non; ma soltanto che non dovrebbero confondere tali attività con il compito di facilitare l'interazione umana con la conoscenza registrata. Il nostro interesse principale è nel contenuto, non nei mezzi tramite cui trasmetterlo, e certamente non in modalità comunicative marginali rispetto alla conoscenza registrata.
Più avanti, a p. 45, dove ipotizza cosa potrebbe succedere in un mondo in cui ci fossero esclusivamente o prevalentemente "biblioteche virtuali" sia nella nuova sia nella vecchia edizione Gorman giudica che uno degli effetti sarebbe "molti editori falliranno; gli altri pubblicheranno tirature limitate di documenti stampati artigianalmente per una ristretta cerchia di appassionati, oppure grandi tirature di riviste spazzatura, pornografia e fumetti per una categoria di lettori in via di diminuzione e di invecchiamento".
È evidente qui una visione elitista della cultura. Non si tratta solo di distinguere tra "contenuto" (principale interesse della biblioteca) e "mezzo con cui trasmetterlo" (possibile ma non prioritario interesse della biblioteca) ma proprio di un giudizio antiquato, biblioteconomicamente e culturalmente inaccettabile su ciò che è o che non è cultura. L'accostamento, con evidente intento denigratorio e sminutivo, dei fumetti alla pornografia è inaccettabile già all'epoca della prima edizione se pensiamo non solo ad opere eccezionali come Maus di Art Spiegelman che racconta in modo assolutamente originale l'Olocausto, o Persepolis in cui Marjane Satrapi racconta la rivoluzione islamica in Iran dal punto di vista femminile, ma anche alla rivoluzione autoriale all'interno del fumetto seriale operata da autori come Frank Miller, Neil Gaiman, Alan Moore. Leggere ad esempio un fumetto apparente banale, di tema supereroistico, come Batman: Il ritorno del Cavaliere Oscuro significa immergersi in un manuale di fotografia e sceneggiatura che ha largamente influenzato la narrazione non solo fumettistica ma anche quella cinematografica. Per non parlare di grandi autori italiani noti a livello internazionale come Pratt, Mattotti, Magnus o alle produzioni nipponiche che influenzano a livello mondiale media diversi come televisione, cinema, videogiochi. E qui arriviamo appunto alla questione videogiochi. In realtà il pregiudizio potrebbe essere stato - anche se non giustificabile - comprensibile da parte di un anziano ed integrato bibliotecario proveniente dal mondo universitario. Il non capire che il medium videoludico è abissalmente diverso dai social network: da una parte un testo, all'interno di un'"opera multimediale interattiva", dall'altro strumenti di comunicazione assai più complessi ma non strutturalmente diversi da un telefono o un fax. Se la complessità del testo presente in un videogioco è necessariamente limitata dalla necessità di renderlo interattivo, ciò non significa automaticamente una svalutazione: basta pensare ai messaggi che attraverso il videogioco è riuscita a lanciare Molleindustria realizzando "seriuous game" che fanno riflettere sulla guerra a distanza dei droni o sulla serializzazione allucinata della vita quotidiana contemporanea; si pensi ad un titolo come This War of Mine che costringe il giocatore a mettersi nei panni di un civile in una città sotto assedio (nello specifico Sarajevo) per vivere l'angoscia, la fame, le malattie, l'incertezza di poter vedere un altro giorno che la guerra produce. In questo senso la svalutazione di determinati media - come appunto il videogioco o il fumetto - contraddice platealmente quanto lo stesso Gorman afferma sulla centralità del contenuto.

Le biblioteche digitali
Già nel primo volume Gorman effettua un'importante distinzione (successivamente ribadita) sulla differenza tra contenuti digitali in biblioteca e biblioteca digitale (che, per precisare, specifica "virtuale"). Mentre la seconda viene criticata i primi vengono giudicati essenziali per completare il ventaglio dell'offerta della biblioteca "tradizionale".
A p. 39-40 si legge:
Anche se il requisito della digitalizzazione venisse soddisfatto, qual è l'infrastruttura economica che dovrebbe rendere perpetuamente disponibile, per esempio, i romanzi minori del diciannovesimo secolo o le opere teatrali del Settecento o la trattatistica religiosa del Seicento? La scansione digitale non fa che degradare ulteriormente la scarsa qualità di stampa di milioni di libri dei secoli scorsi.
Dobbiamo fare affidamento su Google, essenzialmente un intermediario di pubblicità digitale per conservare la conoscenza registrata per gli uomini del ventiduesimo, ventitreesimo, ventiquattresimo secolo? Le grandi biblioteche del mondo esistono, in un certo senso, allo scopo di conservare le parti meno utilizzate o dimenticate della conoscenza registrata per la posterità. È verosimile aspettarsi che questo compito sia portato avanti anche da rapaci interessi commerciali che mostrano deferenza solo per dittatori interessati al solo dio dollaro? Chi dice che le imprese non possano, se in perdita, disfarsi di enormi database che non producono abbastanza denaro? Sarebbe la prima volta nella storia se non lo facessero.
A supporto e sostegno della tesi di Gorman sta quanto scritto da Robert Darnton in Il futuro del libro (Adelphi, 2011) ma anche il recente Algorithms of Oppression di Safiya Umoja Noble (NYU Press, 2018) che ho commentato qui. Al contrario Gorman ribadisce (p. 53) che la "biblioteca come luogo fisico ci è necessaria perché siamo esseri umani". La necessità della biblioteca come luogo fisico che continui a proporre ed a conservare anche documenti fisici è data anche dalla maggiore "deteriorabilità" del documento digitale. In questo senso Gorman paragona il documento digitale al documento manoscritto in termini di mancanza di stabilità a fronte del testo stampato. A p. 68-69 scrive:
...Elizabeth Eisenstein parla dei tre attributi che distinguono il libro stampato dal manoscritto o, per usare le sue parole, che distinguono la cultura della stampa da quella della scrittura: la standardizzazione, la disseminazione e la stabilità. L'analisi della cultura scritta è per molti versi simile all'analisi di quella che chiamerò, per amore di simmetria, la cultura digitale, in particolare per quello che riguarda la "stabilità". Come diversi manoscritti della stessa "opera" differivano uno dall'altro perché ogni copista introduceva errori e cambiamenti così, per gli stessi motivi e con gli stessi effetti deleteri, ogni versione di un testo elettronico è diversa dalle altre.
Questa posizione (presente anche nella prima edizione) può parere paradossale: la duplicazione di un file produce una copia perfettamente uguale all'originale (e questo, fin dagli inizi dell'"era digitale", è stato uno degli elementi che hanno consentito la diffusione della pirateria digitale). Il problema dunque non è legato alla disseminazione (anche se pure questo elemento si trasforma in problema una volta che abbiamo una sterminata quantità di materiale e praticamente nessuno strumento che tenga traccia in maniera affidabile dei relativi "spostamenti")ma alla stabilità. Non perché (come accadeva coi manoscritti) le copie differiscano dall'originale, quanto piuttosto per la facilità d'intervento (anche su testi apparentemente "blindati"). Tanto che anche i più accaniti "conservatori" sono tentati di creare ibridi che distruggono piuttosto che conservare gli originali. L'esempio perfetto è la pagina con le istruzioni relative al funzionamento della lista di discussione AIB-CUR che, al loro variare, piuttosto che essere sostituita da una nuova versione con l'eventuale archiviazione della vecchia, è stata invece "aggiornata" creando così una sorta di mostro documentale che non è più né il vecchio documento né un nuovo documento ma una fusione bastarda dei due.

Proprio perché delicate ed in qualche modo "uniche" alla stregua dei manoscritti, occorre dunque riuscire a discernere quali risorse elettroniche sono degne d'essere conservate e porre in atto le adeguate misure e politiche. Tra queste misure ovviamente c'è l'identificazione e la descrizione.
Leggiamo infatti a p. 63:
Ci sono invece tutte le dovute motivazioni perché le descrizioni delle risorse online vengano integrate nel catalogo; tramite un'unica ricerca per soggetto viene così prodotta una lista di titoli e di materiali, incluse le risorse online. [...] l'impossibilità di integrare fisicamente le risorse elettroniche con il resto delle raccolte ne rende ancora più importante l'inserimento nel catalogo. Nella biblioteca ideale, intesa come edificio, le collezioni fisiche saranno fruibili alla consultazione e all'uso, senza considerare il formato, mentre le raccolte digitali saranno disponibili tramite tutti i dispositivi utilizzabili.
Questo induce a considerare la situazione delle risorse attualmente messe a disposizione dalle piattaforme di "biblioteca digitale". Queste risorse sono, più o meno bene, integrate nei risultati degli opac locali ma la situazione lascia aperti almeno due problemi:
  1. la descrizione di queste risorse lascia grandemente a desiderare rendendo un lavoro impervio il reperimento di una risorsa digitale non attraverso i canali di autore e titolo. Questa situazione rende adeguate tali piattaforme quasi esclusivamente per la lettura di intrattenimento piuttosto che alla presenza di testi per lo studio e la ricerca;
  2. l'assenza delle risorse acquistate sulle piattaforme di "biblioteca digitale" nel catalogo nazionale. Di fatto le risorse digitali sono risorse ancora più ad accesso locale delle risorse fisiche, normalmente disponibili invece a livello perlomeno nazionale tramite il servizio di prestito interbibliotecario (reso davvero efficiente e veloce grazie al servizio di ICCU ILL SBN). Solo in parte lo strumento del PID (prestito interbibliotecario digitale) offerto da entrambe le piattaforme è una soluzione al problema in quanto trattasi di strumento attivabile esclusivamente dalle biblioteche che hanno aderito alla piattaforma ed implementato quello strumento. Al contrario, se si considera l'ebook a tutti gli effetti un libro, dovrebbe essere descritto e la relativa informazione bibliografica e "localizzazione" essere recuperabile tramite il Servizio Bibliotecaria Nazionale. L'architettura bibliografica è del resto, come vedremo più avanti uno dei pilastri necessari della biblioteca.

Il confronto Gorman vs. Lankes
Nel 2011 R. David Lankes pubblica (per MIT Press) The Atlas of New Librarianship, dopo tre anni anche in italiano per i tipi di Editrice Bibliografica (qui la mia presentazione sul Manifesto). Il testo è una pietra miliare per la riflessione biblioteconomica e Lankes gira per ogni dove, Italia compresa, a discutere ed a promuovere la discussione sulla sua idea di biblioteca come hub sociale e civico che riesca a produrre la conoscenza intesa come conversazione. A p. 48 Gorman si scaglia contro Lankes:
Nell'agosto 2014 Karen Calhoun, autrice di un libro sulle biblioteche digitali, ha chiesto ad alcuni colleghi di inviarle una singola frase sulle biblioteche digitali. [...] vale la pena menzionare la frase giunta da David R. Lankes: «È possibile vedere le biblioteche digitali svilupparsi da collezioni di roba a comunità di interesse».
«Collezioni di roba» è uno strano modo di fare riferimento alla conoscenza registrata; inoltre, senza nessuna "roba", a cos'è esattamente che le comunità d'interesse dovrebbero interessarsi? Supponiamo che con il termine "roba" Lankes si riferisca soprattutto a libri e altri supporti tangibili di conoscenza e d'informazione: la forma digitale trasformerebbe il tanto disprezzato carattere di "roba" dei testi? Le "comunità d'interesse" (filatelici? ornitologi? videogiocatori? [vedi alla voce "videogiochi" all'inizio]) possono essere cose positive, ma a meno di non riguardare l'interazione con la conoscenza registrata, non saranno sicuramente le biblioteche.
Mi sembra che si assista qui ad un "flame" che parte, come accade di solito per i "flame", da un perfetto fraintendimento. Proviamo a leggere la risposta completa di Lankes (ora al seguente indirizzo: https://archive.cilip.org.uk/blog/10-thoughts-digital-libraries-where-theyre-going):
“You can see the development of digital libraries from collections of stuff to communities of interest.”
In their first 25 years, digital libraries have demonstrated their value for broadening access to content, supporting the free flow of ideas, and empowering and informing individuals.  
Today, in the context of the participatory web and a highly networked society, digital libraries of all types can also underpin community-based creation, annotation, contribution, sharing, re-use and re-aggregations of content. 
Che io tradurrei in questo modo: 
Potete vedere lo sviluppo di biblioteche digitali da collezioni di materiali a comunità d'interesse.
Nel loro primo quarto di secolo, le biblioteche digitali hanno dimostrato il proprio valore allargando l'accesso al contenuto, supportando il libero flusso delle idee, e potenziando e informando le persone.
Oggi, nel contesto del web partecipativo e di una società grandemente interconnessa, biblioteche digitali di tutti i tipi possono anche sostenere creazioni comunitarie, annotazioni, contributi, scambio, riutilizzo e riaggregazioni del contenuto.
Ora alla base della feroce critica gormaniana sta l'interpretazione negativa di quello "stuff" reso in italiano col dispregiativo "roba". In realtà Lankes non sta dicendo che - come interpreta Gorman - dobbiamo eliminare la "roba", cioè le "collezioni fisiche" quanto che queste non sono più il centro immobile dell'attività della biblioteca. L'attività della biblioteca, il suo "core business", è piuttosto il "contenuto" e tutti i servizi che permettono a tale contenuto di essere utilizzato, riutilizzato, scambiato, annotato, riaggregato, ecc. La formazione continua di cui parla anche Gorman, ma ad un gradino più elevato e consapevole, e che renda consapevole la comunità stessa del valore aggiunto ad essa dai servizi bibliotecari.
Del resto il Gorman del 2000 sosteneva già con forza qualcosa che sembra invece arrivare dritto dritto dall'Atlante (da p. 93 della nuova edizione):
...una "biblioteca" senza assistenza professionale è solo una stanza con libri e computer all'interno, cosa non migliore della totale mancanza di una biblioteca.
Il problema evidentemente, anche per Gorman, non è solo quello delle collezioni e della loro accessibilità (anche da parte di coloro che stanno sul versante sbagliato del "digital divide"), ma anche, e forse soprattutto, quello di riuscire ad integrare grazie alla presenza professionale del bibliotecario le collezioni, fisiche e digitali, nei servizi che caratterizzano, che realizzano la biblioteca.
La questione la chiudeva già il Gorman del 2000 col seguente apporto (p. 119 della nuova edizione):
Al di là dell'impianto fisico, le biblioteche sono costituite da tre elementi principali: le risorse - in qualsiasi formato -, il personale e l'architettura del controllo bibliografico. Senza il controllo bibliografico, i bei palazzi, le collezioni e lo staff non sono altro che enormi e pomposi magazzini: il miglior staff e la migliore organizzazione non possono compensare le raccolte inadeguate. Un indovinello russo ("qual è la gamba più importante di uno sgabello a tre gambe?") sottolinea la dipendenza reciproca dei tre pilastri che costituiscono una buona biblioteca. Lo sviluppo delle raccolte e l'assunzione e gestione del personale sono un'arte piuttosto che una scienza esatta, ma il controllo bibliografico è invece la summa della razionalità e dell'"approccio scientifico" della biblioteconomia.
Riprendo dalle parole di Mauro Guerrini la definizione di "controllo bibliografico" (Bollettino AIB, n. 1, 2009):
Il controllo bibliografico viene definito come l'insieme delle attività di ricerca, identificazione, acquisizione, catalogazione, gestione e valorizzazione delle risorse documentarie di una biblioteca o di una rete di biblioteche; costituisce il perno attorno a cui ruota una parte essenziale dell'attività delle biblioteche e del servizio verso gli utenti. Esso assume soprattutto una funzione che trascende le biblioteche per interessare l'intera comunità dei lettori: registra la produzione culturale di un paese e la diffusione della lingua (o delle lingue) di un paese nel mondo.
per concludere che "servizio" e "controllo bibliografico" possono essere considerati come sinonimi anche perché all'interno del "controllo bibliografico" viene inserita la gestione e soprattutto la valorizzazione delle risorse documentarie (le collezioni nelle sue varie declinazioni - fisiche, multimediali, elettroniche, ecc.) della biblioteca. Del resto tutte le attività proprie della biblioteca sono collegate e non può esistere un evento senza la preliminare acquisizione ed opportuno trattamento del materiale. Immaginiamo una lettura all'interno di un'iniziativa di Nati Per Leggere. anche prima dell'acquisizione dei libri, occorre conosce la bibliografia appositamente redatta, e l'acquisizione del materiale necessità di un'opportuna sistemazione nella sezione o negli scaffali appositi che lo mettano in risalto, per letture in sede e casalinghe con relativi prestiti. Occorre la conoscenza del materiale - e strumenti anche catalografici di orientamento - che possano essere utilizzati sia dai bibliotecari sia dagli utenti. 

Il bene superiore
Ai valori già espressi nella prima edizione, Gorman, nella seconda, aggiunge conclusivamente un valore "generale" che raccoglie e giustifica tutti gli altri: quello appunto del "bene superiore". A p. 179 Gorman spiega che "bene superiore" «è un principio comunitario antitetico all'individualismo, al materialismo e all'egoismo che dominano le società occidentali dei primi del ventunesimo secolo e, in quanto tale, è un principio radicale». In questo senso il "bene superiore" gormaniano si affianca alle battaglie per i beni comuni ed ambientali. La cultura e le biblioteche sono beni comuni ed è proprio questa loro caratteristica a giustificare valori come quelli della democrazia, dell'equità di accesso, della libertà intellettuale. Più ancora del valore "democrazia", quello del "bene superiore" è un valore politico e di matrice progressista. Gorman lo pone espressamente contro una visione selvaggiamente liberista. Le «idee di servizio alla comunità, libertà d'espressione, diritti civili e politici [...] sono nemiche degli interessi sociali ed economici della maggior parte dei ricchi e dei potenti» (p. 180). In questo senso essere bibliotecario consapevole non può non voler dire essere schierati anche politicamente a favore di una società aperta, inclusiva, tesa a non lasciare indietro nessuno.

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