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Di come Google ci vende tutti al miglior offerente

E' notizia recente della multa di 4,34 miliardi di euro comminata dall'Unione Europea a Google "per aver usato Android come mezzo per costruire un monopolio nella raccolta pubblicitaria nella telefonia mobile" (Benedetto Vecchi Il sovranismo digitale nel risiko della Rete, Il Manifesto 19/07/2018). In questo contesto la lettura del libro Algorithms of Oppression: How Search Engines Reinforce Racism di Safiya Umoja Noble (NYU Press, pubblicato lo scorso febbraio) è estremamente illuminante e chiarificatore. Tra l'altro la scelta di non citare esplicitamente Google nel titolo e di preferire il generico "search engines" è probabilmente editoriale, perché l'autrice, già professionista di alto livello nel settore digitale e ora docente di Information Studies alla Annenberg School of Communication University of Southern California, esamina praticamente in maniera esclusiva il motore di ricerca di Google.
Noble parte dalla constatazione che il motore di ricerca di Google opera una discriminazione negli Stati Uniti a danno delle persone di colore (principalmente neri, ma anche "latinos", nativi, ecc.) presentando in evidenza contenuti sessisti o comunque presentando preferibilmente tali categorie in maniera negativa (ad esempio mettendo ai primi posti siti suprematisti bianchi se si effettua una ricerca sui crimini perpetrati dai neri o al contrario presentando prevalentemente immagini di bianchi se si effettua una ricerca su immagini di medici). Di fronte alle accuse di discriminazione, racconta Noble, Google si è sempre difesa sostenendo che l'ordine dei siti presentati nei risultati delle ricerche è un risultato automatico dell'algoritmo che pone in evidenza i siti più rilevanti e più cliccati per ogni singolo determinato argomento. Tuttavia, di fronte ad evidenti discrasie, Google è intervenuta sull'algoritmo perché l'ordine dei risultati venisse variato (come nel caso di ricerche su "black girls" che presentavano quasi unicamente in prima pagina risultati pornografici) e quindi l'automatismo dell'algoritmo si dimostra alla fine non così... automatico. Non solo ma Alphabet (la società che possiede il marchio Google) ha una percentuale bassissima di dipendenti di colore con la giustificazione, anche questa di sapore razzista, che per le assunzioni non valuta il colore della pelle ma le competenze (che starebbe a significare che i bianchi hanno più competenze informatiche dei neri, ipotesi non supportata da alcuna ricerca, un po', mutatis mutandis come dire: "non sono né di destra né di sinistra, ma...").
Ma fin qui la cosa potrebbe anche sembrare qualcosa di scarsa importanza per gli interessi in generale dell'Europa ed in particolare per quanti in Europa ed in Italia effettuano ricerche sul più noto ed utilizzato motore di ricerca. Al contrario questo porta ad evidenziare conseguenze importantissime per tutti e soprattutto per i professionisti dell'informazione (che gli strumenti relativi dovrebbero conoscere come le loro tasche sia per quanto riguarda i pregia sia per i difetti, e non è un caso che la Noble si sia laureata proprio in Library and Information Science e che ripercorra l'evoluzione degli strumenti per la ricerca delle informazioni - in Rete e non - proprio a partire dalle biblioteche e dai non sempre limpidi e a volte palesemente razzisti criteri da questi utilizzati a partire dai termini discriminatori presenti in Library of Congress Subject Headings e denunciate da Sanford Berman fin dagli anni '70). In particolare che il "ranking" dei siti presentati da Google Search in risposta alle interrogazioni degli utenti (è il frutto di un algoritmo impostato in modo che il risultato) non sia direttamente quello di fornire l'informazione più rilevante per l'utente e neppure quella più "popolare" quanto quella di privilegiare i siti che aderiscono al programma pubblicitario di Google AdSense. Di più, Noble ci dice che:
...Google Search is in fact an advertising platform, not intended to solely serve as a public information resource in the way that, say, a library might. Google creates advertising algorithms, not information algorithms. [...Google Search è in realtà una piattaforma pubblicitaria, non intesa a servire esclusivamente come risorsa pubblica di informazione alla stregua in cui potrebbe esserlo una biblioteca. Google crea algoritmi pubblicitari, non algoritmi informativi.]
Praticamente ogni giorno effettuiamo ricerche su Google Search, ma la finalità del motore di ricerca non è quello di fornirci i migliori risultati, quanto di vendere pubblicità e quindi di mettere in risalto le pagine collegate alle aziende che hanno pagato a Google quote pubblicitarie. Il meccanismo potrebbe parere uguale a quello delle tv commerciali: i relativi utenti non sono gli spettatori quanto gli sponsor e l'obiettivo è fornire agli spettatori trasmissioni ad essi gradite in modo da aumentare lo share e far rendere in maniera maggiore possibile i soldi pagati dagli sponsor per gli inserimenti pubblicitari. In realtà il meccanismo è decisamente più complesso, perché di fronte ad un programma televisivo lo spettatore resta un soggetto sostanzialmente passivo (nonostante gli sforzi ormai decennali di proporre qualche forma d'interattività che riesca a "bucare" lo schermo, dal televoto, alle telefonate da casa, da marchingegni più o meno improbabili per partecipare ludicamente da casa ai sondaggi quotidiani di Sky) e alla fine può sempre cambiare canale se quello che vede non gli garba. Al contrario Google, attraverso tutta una miriade di servizi che ha affiancato al core business di Search come Gmail, Blogger, ecc., trasforma il consumatore in "prosumer", cioè in utente che non solo passivamente "consuma" quanto gli viene fornito (in modalità "broadcast") da Google, ma piuttosto attraverso i servizi di Google crea contenuti che restano a disposizione di Google per migliorare e rendere più appetibili i propri prodotti agli investitori pubblicitari.
Sempre Noble ci avvisa infatti che:
...Google's commodities are not its services such as Gmail or YouTube; its commodities are all of the content creators on the web whom Google indexes (the prosumer commodity) and users of their services who are exposed to advertising (audience commodity). We are the product that Google sells to advertisers. [Le merci di Google non sono i suoi servizi come Gmail o YouTube; le sue merci sono tutti i creatori di contenuti sul web che Google indicizza (merce prosumer) e gli utenti dei loro servizi che sono esposti alla pubblicità (merce pubblico). Noi siamo il prodotto che Google vende agli inserzionisti.]
Safiya Umoja Noble
In sostanza quello che noi produciamo gratuitamente mediante gli strumenti messi a disposizione dalle società del web come Google si trasforma in valore per Google stessa (valore ben più rilevante di qualsiasi "pirateria musicale"). Affrontare questa situazione da un punto di vista di politiche pubbliche non è semplice, tanto più che in questo settore, praticamente in tutto il mondo occidentale Google è in situazione di forte monopolio e per quanto l'Europa possa fare la voce grossa e comminare multe apparentemente pesanti, come ci fa notare Vecchi nell'articolo sopra linkato, si tratta di una "cifra astronomica, tuttavia, che Google incassa in una manciata di giorni". La multa non serve allora a  ridimensionare Google quanto si va ad inserire nel clima di guerra commerciale che le posizioni prese dall'America trumpiana stanno esasperando, e non è un caso che l'amministrazione statunitense sia immediatamente insorta nei confronti della decisione europea. In attesa di possibili soluzioni, i professionisti dell'informazione (leggi: bibliotecarie e bibliotecari) debbono essere consapevoli della situazione e fornire ai loro utenti non tanto inesistenti alternative quanto conoscenze che possano far sì che siano in grado di utilizzare in maniera consapevole gli strumenti messi a disposizione da Google a dagli altri colossi finanziari del web. Consapevoli che "noi" siamo la merce e che dobbiamo trovare, collettivamente, modo o di rendere pubblici gli strumenti informativi (creare un "opac" pubblico per le pagine e le risorse su Internet?) o di trovare una possibile forma di "retribuzione" per il lavoro fatto con la nostra attività sui servizi di Google & Co. Per il momento non resta l'auspicio che un nuovo Marx ci illumini sui nuovi meccanismi di sfruttamento del lavoro nella Rete (che quelli vecchi come me speravano - illusi - potesse essere una Zona Autonoma di libertà e resistenza all'oppressione materiale) e ci indichi la strada percorribile per un nuovo comunismo digitale.

Commenti

  1. Interessante articolo, molto ben scritto e assolutamente condivisibile nell'analisi e nell'auspicio finale
    Cristina, bibliotecaria scientifica

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  2. Interessante, alcune cose le sapevo già altre le sospettavo. :)

    RispondiElimina

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