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Lo status del/la "graphic novel"

Giovedì 3 agosto sono stato all’Arci Festa 2017 di Cremona per assistere all’incontro, “smoderato” da un effervescente Massimo Galletti (la cui “storia del fumetto in 7 tappe e 3 minuti” meriterebbe di essere caricata su Youtube e diffusa tra tutti quelli che non sanno cos’è il fumetto per una introduzione fulminea e tra tutti gli appassionati per mostrare loro spunti di approfondimento insospettati) tra Alessio Trabacchini e Boris Battaglia.
Alessio Trabacchini in qualità di curatore del volume I graphic novel da leggere a vent’anni (Edizioni dell’Asino, 2016) e Boris Battaglia come autore del volume Corto. Sulle rotte del disincanto prattiano (Armillaria, 2017) per parlare di Hugo Pratt e del suo primo “Corto Maltese”, Una ballata del mare salato da cui ci separano cinquant’anni precisi.
Mi ha interessato in particolare il discorso sul graphic novel come genere (durante il dibattito si è rimarcato l’uso della forma maschile per il termine, anche se personalmente ho sempre usato il femminile e trovo conferma di quest’uso nell’Enciclopedia Treccani: “Celebri autori italiani di g. sono per esempio H. Pratt e A. Pazienza, mentre nel panorama internazionale sono celeberrime le g. Maus, testimonianza sulla Shoah pubblicata negli anni Ottanta a opera di A.Spiegelman (premiato con lo Special award del Premio Pulitzer), e più di recente Persepolis (2000), di M. Satrapi, testimonianza sulla condizione della donna in Iran in seguito alla rivoluzione islamica”) anche per la discussione casuale con un volontario ventenne (e quindi ideale destinatario del volume curato da Trabacchini) sul suo status di genere vero e proprio o di mera etichetta editoriale utilizzata come strumento di marketing in seguito all’acquisto per la biblioteca del volume di Andrea Tosti Graphicnovel. Storia e teoria del romanzo a fumetti e del rapporto fraparola e immagine (Tunué, 2016; opera vincitrice del Premio Franco Fossati 2017). Ora non ho ancora letto né il ponderoso saggio di Tosti e ho solo curiosato qua e là tra le pagine dei due volumi degli ospiti di Cremona, ma mi piacerebbe comunque condividere qualche riflessione risultante dalla discussione col ventenne prima e dal confronto dei due critici a Cremona poi.
Partiamo dal ventenne. L’osservazione che mi proponeva era appunto che il o la graphic novel non era un qualcosa di artisticamente definito, ma piuttosto una categoria principalmente buona come strumento di marketing per l’editoria del fumetto. Mi sembrava limitante il giudizio e opponevo ad esso il concetto di graphic novel come intenzionalità degli autori di esulare dalla pura serialità per produrre, mediante il linguaggio fumettistico, una storia, una narrazione compiuta. Dall’incontro cremonese è uscito un’ulteriore aspetto della questione: Una ballata del mare salato, additata (anche dalla Treccani) come antesignana (e in qualche modo archetipo) del o della graphic novel, è in realtà uscita inizialmente su rivista e solo in seguito raccolta in volume. Destino capitato del resto a vari classici a fumetti italiani e stranieri che oggi vengono riproposti in volume come se l’antologia ivi raccolta fosse in realtà fin dall’origine una storia coerente e compiuta. Al contrario oggi mi sembra accadere proprio l’opposto: anche nei prodotti più tipicamente seriali come i fumetti dei supereroi, vengono progettati archi narrativi che, se di successo, possano essere riproposti sotto forma storia a sé stante in volume. Ecco allora che, pur mettendola in dubbio all’inizio, torno a rivalutare la critica all’etichetta di graphic novel, non perché mi sia convinto della sua insensatezza, ma piuttosto perché mi accorgo che prima che cifra stilistica, si tratta effettivamente di strategia editoriale. Anche se ci sono opere a fumetti che è difficile definire in altro modo (e penso ad esempio a quelle di Mattotti, all’esatto polo opposto rispetto alla serialità) tuttavia molte dei o delle graphic novel consigliate ai ventenni nel volume a cura di Elena Orlandi, Emilio Varrà e – appunto – Alessio Trabacchini sono in realtà opere di confine tra narrativa seriale e narrativa (mi sia concesso l’aggettivo esclusivamente con finalità di distinzione) compiuta: ad esempio Bone di Jeff Smith o Akira di Katsushiro Otomo. In entrambi i casi la compiutezza è nella chiusura, nell’essere stata apposta una conclusione dopo anni di pubblicazione durante la quale chiunque avrebbe a buon diritto potuto sostenere la serialità dei due lavori.
Pertanto il o la graphic novel è prima di tutto un problema. Un problema che si ripropone nei fumetti ben dopo essersi manifestato nella narrativa scritta (per dire: i romanzi di Dickens nascono come storie a puntate e oggi i romanzi di genere anche solo vagamente di successo si trasformano in serie) e che non ha una soluzione: piuttosto si risolve ogni volta nella singola analisi critica di un’opera e/o di un autore. Per questo bisogna rinunciare all’idea di essere esclusivamente “storici” e rischiare di scommettere con il proprio acume e con i propri giudizi sul presente, anche del fumetto. Soprattutto del fumetto, in Italia più che altrove ancora vittima di preconcetti e non alieno da un senso di inferiorità rispetto ad altri media.



PS: grazie al prezioso (non solo per la discussione sul fumetto) volontario ventenne Fabio Casaroli.
Alessio Trabacchini, Massimo Galletti e Boris Battaglia

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