Sto leggendo in parallelo
due libri per certi versi molto diversi: La volontà di potenza,
la raccolta di frammenti postumi di Friedrich Nietzsche - ordinata
dalla sorella assieme a Peter Gast e riproposta in Italia in una
nuova edizione nel 1992 a cura di Maurizio Ferraris e Pietro Kobau -,
testo utilizzato pretestuosamente come giustificazione filosofica del
nazismo, ma contemporaneamente utilizzato da esegeti del calibro ad
esempio di Martin Heidegger nel suo Nietzsche
(Adelphi, 1994); e Le due Italie di Giovanni Gentile
(Il Mulino, 1998) con cui Gennaro Sasso cerca di mostrare come
l'attualismo gentiliano sia una filosofia estranea al fascismo. Dato
che circa 25 anni fa avevo sostenuto tesi analoghe nella mia tesi di
laurea su Autorità e libertà nel pensiero
pedagogico-politico di Giovanni Gentile
ero curioso di vedere come conducesse la propria argomentazione
Sasso, anche perché se avevo sostenuto (e, mi sembra, provato) che
l'attualismo è del tutto alieno al fascismo repubblichino, avevo al
contrario trovato consonanze non casuali col fascismo rivoluzionario,
quello stesso fascismo a cui Gentile aderì negli anni '20
sostenendone la continuità con l'ideologia liberale correttamente
interpretata. In realtà, pagina dopo pagina, nonostante la
difficoltà nel seguire l'involuta prosa di Sasso, mi sono reso conto
che le motivazioni addotte da Sasso non sono affatto convincenti.
Questo perché, nonostante il libro sia dedicato a dimostrare –
come sostiene la quarta di copertina – che quanto si
radica nell'interpretazione che fornì della storia medievale e
moderna dell'Italia, di altrettanto l'adesione che nel 1923 Giovanni
Gentile dette al fascismo è estranea al suo pensiero filosofico,
rigorosamente inteso nel suo nucleo logico,
in realtà quello che fa Sasso è tutt'altra cosa. Gennaro Sasso per
mostrare la difficoltà dell'adesione dell'attualismo all'ideologia
politica fascista compie un percorso di critica dello stesso
attualismo fondamentalmente negando non solo il valore
dell'attualismo come riforma della dialettica hegeliana, ma negando
il valore stesso della dialettica nel suo essere spiegazione della
trasformazione e dell'evoluzione, ritornando sostanzialmente -
severinianamente - alla parmenidea contrapposizione di essere e non
essere. L'impensabilità della dialettica, specificatamente della
dialettica attualistica, rende agevole a Sasso criticare il concetto
e l'interpretazione della storia gentiliani, tralasciando però che
nell'attualismo il concreto è l'atto, il farsi presente: il passato,
qualsiasi passato è un astratto che si concretizza nel presente. Per
questo qualsiasi interpretazione è cogente solo in misura del suo
attualizzarsi rispetto ai concreti problemi del soggetto non in una
ricerca fine a se stessa e quindi astratta. E quindi la critica alle
varie interpretazioni gentiliane del Rinascimento e del Risorgimento
se ha un indubbio senso storico ha però scarso rilievo filosofico di
fronte ad una filosofia come l'attualismo: è l'inefficace
perorazione del valore di un'esposizione astratta della storia che
dovrebbe negare gli effetti concreti dell'interpretazione gentiliana
ossia la sua adesione al fascismo. In realtà dunque tale negazione
ha sapore puramente astratto, vale a dire inefficace, e mi pare
piuttosto che una critica all'adesione gentiliana al fascismo vada
condotta non demolendo l'attualismo stesso, ma piuttosto andando a
verificare se, presupponendo valido l'attualismo come criterio
politico, esso giustifichi o meno il fascismo (e piuttosto quale,
dato che anch'esso non è un corpus ideologico e storico monolitico).
Tuttavia,
la lettura parallela dei due volumi ha fatto emergere un insospettato
punto di contatto che mi ha permesso di tornare a riflettere
sull'attualismo come filosofia politica, soprattutto alla luce della
situazione attuale. Tale riflessione parte proprio da un passo della
Volontà di potenza.
Nietzsche scrive infatti
nell'aforisma 419 che: La
filosofia tedesca nel suo complesso – Leibniz, Kant, Hegel,
Schopenhauer, per nominare solo i grandi – è la più radicale
forma di romanticismo e di nostalgia finora esistita: l'aspirazione a
ciò che di meglio fosse mai esistito.
La nostalgia è nei confronti della originaria cultura greca ed egli
approfondisce così il giudizio: Si vuole tornare indietro,
attraverso i Padri della chiesa fino ai Greci, dal Nord verso il Sud,
dalle formule alle forme; si gode anche la fine dell'antichità, il
cristianesimo, come di una via d'accesso all'antichità, come di un
buon frammento del mondo antico, come di uno scintillante mosaico di
concetti e giudizi di valore antichi. Gli arabeschi, i ghirigori, il
rococò della astrazioni scolastiche – sempre meglio, cioè più
fini e più tenui, della realtà contadinesca e plebea del Nord
europeo: comunque, una protesta della superiore spiritualità contro
la rivolta dei contadini e della plebe che è diventata padrona del
gusto spirituale del nord Europa e che ebbe il suo capo in Lutero,
nel grande “uomo antispirituale” - così considerata la filosofia
tedesca è un frammento della Controriforma, e persino del
Rinascimento, o almeno della volontà di rinascita, volontà di
progredire nella scoperta dell'antichità, nel disseppellimento
dell'antica filosofia, soprattutto di quella presocratica, del tempio
greco più profondamente sepolto!
Questo passo è, tra l'altro, proprio uno di quelli su cui si è
focalizzata l'attenzione ermeneutica da parte di Heidegger nel suo
già citato Nietzsche.
Ma se
la filosofia tedesca è una scheggia di Rinascimento, è proprio in
questa sua fattispecie che l'attualismo ne è non continuazione ma
superamento. Superamento della nostalgia della grecità – in opera
anche nel successivo Heidegger – che la pervade in direzione della
ricerca di un orizzonte che stia davanti a noi e non dietro. È
in Le due Italie di
Giovanni Gentile che
Sasso mostra – anche problematicamente – come Gentile (sulla
scorta del giudizio di De Sanctis) consideri il Rinascimento come un
periodo di decadenza della storia civile italiana, in cui al fiorire
delle arti fa da contraltare un disimpegno civile che non ha
consentito all'Italia di conseguire prima il suo destino di nazione.
L'attualismo
in questo senso può essere considerato il superamento della
filosofia nostalgica ponendo valore sul futuro nel progetto che
concretamente si realizza (mediante il lavoro): non (solo) studio del
fatto ma valorizzazione dell'atto che concretamente si fa. Filosofia
intimamente politica perché pone l'accento sulla creazione della
realtà sociale nella accezione di storia. Non necessariamente
filosofia fascista come è testimoniato d'altra parte dal rapido
scemare dell'influenza gentiliana nel fascismo “reale” (cfr.: Il
Gentile dei fascisti di Alessandra Tarquini; Il Mulino, 2009). Se
fascista lo fu, lo fu nel momento in cui il fascismo era un progetto
di sovvertimento radicale – nel solco del Risorgimento, e quindi
dell'affermazione dell'identità nazionale attraverso l'unificazione
del suo popolo – della realtà nazionale.
In
questo senso l'attualismo è l'ultimo vero sistema filosofico che si
propone di disegnare un quadro dell'essere e dell'agire umano nel
mondo. L'ultimo forse ad esclusione – paradossalmente – del
pensiero debole. Ma il pensiero debole si mette sul sentiero del
ripercorrimento della tradizione, in particolare a partire da
Heidegger, da un lato, e della programmatica incapacità di svelare
il meccanismo complessivo dell'essere, dall'altra. In questo senso è
da tempo che il pensiero debole è – purtroppo – la chiave
ermeneutica per interpretare il nostro tempo: un pensiero non solo
non più in grado di fornire un'interpretazione del mondo in grado di
fornire ad esso un senso, ma che di più teorizza l'impossibilità di
tale impresa condannando l'essere umano nel mondo ad una privazione
senza appello di senso e di destino.
Per
questo l'attualismo rimane il non superato orizzonte filosofico da
rimeditare. Il problema è che questo orizzonte filosofico, che è
anche e inscindibilmente politico, non è materialmente maneggiabile
in un'epoca priva di ideologie e di orizzonti politici che vadano
oltre il microcabotaggio delle convenienze e degli aggiustamenti,
prona per altro, non solo agli interessi economici, ma ancor più
basso e peggio, a quelli finanziari. Un mondo dove a far da
contraltare al pensiero debole sta una politica debole succube non
solo di altri poteri (da sempre l'ambito di manovra alla politica è
stato conteso almeno dall'economia e dalla religione), ma di poteri
che come si vedrà possono assurdamente porsi al di fuori dal
controllo dell'umano.
Significa
forse questo che si auspica il ritorno dell'esaltazione dell'idea di
nazione, di popolo che bellicisticamente si confronti con gli altri?
Significa forse che dovremmo rinunciare alla politica comunitaria per
riaffermare l'unicità dello stato italiano? Significa piuttosto che
occorre recuperare il primato della politica come orizzonte non solo
di amministrazione spicciola, ma di ordinamento, di cambiamento, di
progetto dell'essere. E che questo primato si esplica precisamente
nel concetto attualistico dell'atto che è contemporaneamente
esser-ci cioè essere consapevoli della propria realtà, ma
anche fare (anche nella dimensione del lavoro) ovvero far sì
che tale consapevolezza si tramuti in stimolo per l'azione ed il
miglioramento in vista di un orizzonte voluto e ricercato, in vista
di un futuro progettato e costruito.
La
dialettica politica dev'essere precisamente questo: verso quale
orizzonte tendere, mentre è segno dell'estrema decadenza della
stessa il fatto che si discetti invece sui mezzi per arrivare da
qualche parte, mediamente il far contenti i mercati. Al contrario i
mezzi in quanto tali, e cioè strumenti, possono essere oggetto di
mediazione e scambio, cosa evidentemente non possibile nei confronti
dei fini delle ideologie.
L'attualismo
non sposa tanto una specifica ideologia politica, nel senso di
orizzonte/progetto che de-finisce quell'ideologia, quanto la
prassi che porta a quell'orizzonte. Prassi che vede ogni ideologia
accomunata dalla necessità di considerare il popolo tutto come
soggetto della storia e del cambiamento. Per questo motivo, il
cambiamento, qualsiasi direzione prenda, deve per forza passare
attraverso il motore di una scuola e di una cultura che unifichino il
popolo, non tanto in un'unica idea politica (come successo col
fascismo o col comunismo) o religiosa (come nei paesi islamici) ma
piuttosto nella consapevolezza stessa di essere popolo ed in quanto
tale soggetto della storia, progettista del proprio futuro. In questo
senso lo stato deve essere, in qualche misura, etico: non può
esimersi dall'indicare almeno quali siano i valori fondamentali del
vivere comune e questi valori li deve spiegare, promuovere, mettere
innanzi al vivere comune stesso combattendo nel contempo gli ostacoli
al suo sviluppo.
E c'è
però chi potrebbe obiettare il darsi, in contraddizione con quanto
detto, di un orizzonte politico che voglia la conservazione, il
non-cambiamento, la tradizione. Ma è da sottolineare che tradizione
e non-cambiamento sono cose estremamente diverse. La tradizione,
anche considerata come conservazione, prevede il recupero ed il
ritorno a valori considerati indeboliti o perduti. Il non-cambiamento
e la conservazione intesa come dello status-quo è esattamente il
non-orizzonte della politica di microcabotaggio che vive nella
subordinazione perpetua a poteri altri a cui assistiamo nella
contemporaneità mondiale o quasi. Proprio questa è la politica che
ci rende inermi a qualunque minaccia, si chiami crisi economica,
terrorismo internazionale, disastro ambientale. Questa politica dello
status-quo, che non ha una direzione, un senso, un orizzonte è la
notte della politica, e la sua apparenza democratica è se possibile
peggiore addirittura di un qualsiasi totalitarismo perché
intrinsecamente incapace di assumere qualsiasi decisione sulla storia
del suo popolo. Decisione che s'inserisca in un disegno, in un
progetto che quella stessa politica abbia e che non sia imposto non
dal potere economico, ma addirittura da una parte di esso, una parte
– la finanza – nemmeno composta di persone (ché in questo caso
saremmo comunque almeno di fronte a un'oligarchia o a una
plutocrazia) ma di meccanismi parzialmente automatici di flusso dei
capitali che solo in parte chi ne è in grado riesce ad intercettare
e a far profittare. Pensiamo per un attimo alla situazione delle
banche, parti non secondarie dei meccanismi dei mercati. La banca che
riesce ad operare oculatamente sui flussi finanziari opera ricavi
ingenti per proprietari/azionisti, mentre il lavoro che pure la
sostiene e le permette di operare non viene beneficiato. Al contrario
la banca che perde capitale in operazioni arrischiate o fallisce
annullando il capitale in essa investito dal lavoro o viene “salvata”
dallo stato che utilizza esattamente altre risorse economiche
provenienti dall'economia reale oltre a quelle che la banca ha già
dilapidato. Tutto questo meccanismo, sia che abbia conclusione
positiva, sia che abbia esito infausto, non ha alcuna rilevanza sulle
prospettive economiche, sociali o politiche dell'ambiente sociale in
cui la banca opera (tranne ovviamente nel caso del fallimento ove di
esso debba farsene carico la comunità). Non di meno è a questo
meccanismo finanziario – in cui l'esempio bancario è inserito –
a cui la politica tutta è dedicata. E proprio perché in buona parte
questo meccanismo è automatico ed alieno al lavoro esso annulla,
azzera la possibilità di progettare un orizzonte politico.
Tutta
questa argomentazione che si è cercato di proporre può però in
qualcuno essere rimasta in secondo piano rispetto alla durezza
dell'affermazione iniziale: questo sistema politico in cui ci
troviamo a vivere è solo in apparenza democratico, ma in realtà
peggiore di qualsiasi totalitarismo. Con questo non si vuole
denigrare il sistema democratico o lodare qualcuno dei vari
totalitarismi/dittature passate, presenti o venture. Tutto il
contrario. Anzi se pensiamo l'attualismo come filosofia politica
dell'autocoscienza del popolo affinché si progetti verso il proprio
futuro, dobbiamo ammettere il sistema democratico come uno dei più
coerenti a questa visione. Non è questo quello a cui qui si obietta.
Al contrario si afferma con forza che quello che in questo momento ci
viene presentato come democratico non lo è affatto. Non lo è
perché non è il demos/popolo ad avere la crazia/potere: se non
quello di sistemare la cosa pubblica nel migliore dei modi per il più
agevole funzionamento dei mercati. Occorre pertanto sottolineare con
la dovuta durezza che quella che viene spacciata oggi per democrazia
è in realtà qualcos'altro. Al meglio l'amministrazione di qualche
funzione secondaria (secondaria non perché non importante comunque
nella vita dei singoli cittadini, ma secondaria perché di scarsa se
non nulla rilevanza nella capacità di cambiare direzione, di
cambiare quello che si è detto lo status-quo) dello stato e della
comunità. Al peggio una forma di spartizione del potere residuo.
E pure
potrebbe esserci chi si chieda, anche a fronte dell'accettazione
dell'analisi politica proposta, il motivo della riesumazione di
quello che potrebbe parere ai più come un rugginoso rottame
filosofico del passato, per di più provinciale e poco aperto al
respiro filosofico europeo e/o occidentale (anche se cfr: Salvatore
Natoli Giovanni Gentile filosofo europeo Bollati
Boringhieri, 1989). Mi sembra evidente però che non vi siano
attualmente alternative filosofiche in grado di dare un senso
all'attuale situazione, considerando che da un lato il marxismo
classico ha efficacemente previsto la “vittoria” del capitalismo
ma si è rivelato totalmente inefficace nello stimare le risorse di
quest'ultimo di adattarsi rapidamente ai mutamenti sociali e
tecnologici sfruttando, almeno a partire dalla seconda metà del
Novecento, la sempre più veloce globalizzazione e divisione del
lavoro per superare il conflitto di classe e riuscire a opporre
sempre più efficacemente le varie tipologie di lavoratori (ad
esempio dipendenti vs. precari, sindacalizzati vs. non, ecc.);
dall'altro lato l'apparente superamento delle ideologie con la
sconfitta soprattutto di quella socialista/comunista e il conseguente
riallineamento di tutto il mondo industrializzato al dogma liberista
ha avuto come controaltare giustificativo il già citato pensiero
debole che ha teorizzato l'impensabilità/impossibilità di una
teorizzazione sistematica e coerente (pro o contro non ha particolare
importanza dato che anche un'interpretazione sistemica favorevole
allo status quo rischia di rivelarsi velocemente un intoppo ad un
rapido mutarsi delle condizioni). Il problema è che tale assoluta
predominanza sul reale della sfera economica senza un adeguato
controllo o feedback né dalla sfera politica, né dalla sfera
teorica/ideologica/filosofica, ha fatto sì che la stessa sfera
economica s'incartasse su se stessa producendo la situazione attuale
assolutamente anomala in cui la sfera economica stessa (e quindi
tutto il resto della realtà sociale) sia dominata non dai rapporti
di produzione ma dal sottosistema finanziario che, come si è
sottolineato, è diventato indipendente sia dall'universo
dell'economia reale, sia a qualsivoglia esigenza di natura sociale.
In questo quadro risulta complicato qualsiasi tipo di approccio che
non sia meramente prono alle esigenze dell'economia finanziaria, come
possiamo vedere in qualsiasi momento della nostra vita, subissati per
ogni dove da notizie su spread ed indici borsistici. Da questo punto
di vista, in assenza di altre teorizzazioni attualmente efficaci non
solo per spiegare l'esistente, ma anche per delineare una via di
uscita da una crisi che ogni giorno di più si sta rilevando non
meramente congiunturale ma piuttosto sistemica ed epocale rispetto al
sistema di vita capitalistico occidentale, l'attualismo mi sembra
possa aiutare a delineare una sorta di “road map” per l'uscita da
questa situazione. D'altra parte l'attualismo è in effetti stata una
risposta ad una situazione di crisi – molto diversa ma non meno
profonda e diffusa – a cui l'occidente è andato incontro
all'inizio del secolo scorso. Tale crisi si è risolta – non senza
qualche responsabilità anche da parte dell'attualismo, che è stato
utilizzato per giustificare anche la politica assurdamente
(considerando le risorse a disposizione) bellicista del fascismo –
unicamente grazie alla catastrofe di una guerra mondiale, ma già c'è
qualche economista che ha giudicato essere necessario un evento
altrettanto radicale per l'uscita dalla presente crisi. Senza per
forza cedere al millenarismo del tanto peggio/tanto meglio o al
gattopardesco cambiare tutto nella speranza che non cambi nulla
(strategie entrambe estremamente di moda oggi come oggi), è
possibile provare ad immaginare una strategia che ci consenta di
riprendere il controllo delle nostre vite? Se tale speranza è
possibile, come trasformare tale sogno in un percorso politico? Qui è
dove – mi sembra – l'attualismo può ancora essere utile,
adeguatamente aggiornato ed adattato ai nostri tempi. Utile come lo
può essere una filosofia che ponga nel soggetto inteso come popolo
(italiano/greco/tedesco/cinese/... /americano/europeo/asiatico/...
/occidentale/... /mondiale?) la possibilità attraverso l'atto inteso
anche come lavoro (e quindi anche come forme produttive) di adeguare
il proprio destino e la propria storia alle aspettative che
concretamente si pone.
Per
far questo la politica deve riappropriarsi della propria prerogativa
di proiettarsi/progettarsi altrove, d'immaginarsi spazi diversi e
migliori. E sono l'economia e le sue componenti più o meno
automatiche a dovere lavorare per adattarsi a questo progetto, che se
non meramente astratto troverà in tutte le forze vitali della
società il necessario nutrimento, le necessarie forze per compiersi.
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