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Ancillary e il femminile sovraesteso

 Ringrazio Gino Roncaglia che, a margine della sua presentazione piacentina dell’ultimo libro – L’architetto e l’oracolo (di cui ho scritto qui) -, mi ha segnalato, all’interno di uno stimolante confronto sulla comune passione per la fantascienza, la trilogia di Ann Leckie Ancillary. I tre libri che compongono la trilogia (Justice, Sword e Mercy), originariamente usciti nel 2013, 2014 e 2015, sono stati pubblicati prima da Fanucci (in realtà solo i primi due, rispettivamente nel 2014 e 2015) e successivamente da Mondadori, raccolti prima nel volum(on)e completo uscito nel 2019 e poi singolarmente nella collana Urania Jumbo (2020, 2021 e 2021). Si tratta di una space opera dove il Radch è un impero galattico umano che annette brutalmente e sanguinosamente sistemi fino a quando non cozza di fronte ad una civiltà ancora più violenta e temibile. I mezzi per l’espansione e per il controllo dei propri sistemi sono affidati dal Radch ad astronavi guidate da Intelligenze Artificiali: la classe Justice corrisponde al trasporto truppe, la Sword agli incrociatori e la Mercy alle navi leggere da pattugliamento. Le IA delle navi sono dotate anche di esseri umani ad esse collegate – le “ancelle” appunto – svuotate dalla personalità originaria e trasformate in “segmenti” della nave. La stessa cosa vale anche per il Lord del Radch, Anaander Mianaai, che utilizza una molteplicità di corpi per garantirsi immortalità e ubiquità nell’impero. Ma la cinica crudeltà con cui spazza via chiunque lo ostacoli o anche solo osi mettere in dubbio le sue decisioni lo pone in contrasto con la IA della Justin of Toren dopo che una sua tenente è stata “giustiziata” per essersi ribellata ad un massacro insensato. Col medesimo cinismo Mianaai distrugge anche la nave pur col proprio segmento a bordo, ma la Justice of Toren riesce a salvare una sua ancella, One Esk 19 come qualifica sulla nave e Breq come nome, che giurerà vendetta per scoprire però di essere al centro di una sorta di guerra civile tra i vari segmenti dell’imperatore.

La segnalazione di Roncaglia arrivava però a margine della discussione sull’uso delle lingue nella fantascienza, in particolare di lingue inclusive e/o che fossero usate da gruppi di persone sottorappresentate, e nello specifico dalle donne. La discussione non a caso è caduta su Lingua nativa, il romanzo (anch’esso primo di una trilogia) di Suzette Haden Elgin (di cui ho parlato qui), ove si immagina la creazione di una lingua femminile – il Làadan – che consenta di cambiare un mondo in cui le donne sono private di tutti i diritti. Roncaglia, proprio su questa tematica, mi ha quindi consigliato la trilogia Ancillary dove l’autrice usa sistematicamente il femminile per indicare qualsiasi personaggio, sia femminile sia maschile. In particolare la traduzione Mondadori, perché quella Fanucci (relata refero, però, perché non ho avuto modo di verificare l’informazione) introduce arbitrariamente il maschile. In quest’ottica è fondamentale la nota della traduttrice Francesca Mastruzzo, che qui riporto per intero.


NOTA DEL TRADUTTORE


La storia che state per leggere richiede un piccolo sforzo di adattamento linguistico. Ann Leckie ha inventato un universo complesso e affascinante largamente dominato da un impero millenario, il Radch, dove migliaia di corpi sono al servizio di intelligenze artificiali e nel quale una tradizione di scarsa mobilità sociale comporta un’attenzione ossessiva al rispetto dell’etichetta, espresso attraverso i comportamenti e soprattutto l’uso delle corrette formule linguistiche.

Quella Radchaai è inoltre una cultura che non bada alla distinzione tra i generi sessuali, e questo si riflette sul linguaggio: dato che il genere non è importante, per consuetudine tutte le persone vengono indicate con il pronome femminile. Non perché i personaggi siano tutti donne, ma perché questo prevede il Radchaai, la lingua franca dell’impero. Quando, all’inizio del racconto, la protagonista e voce narrante Breq incontra Seivarden, che già conosce, e ci dice di sapere che è un maschio, continua comunque a farvi riferimento al femminile. D’altra parte che senso avrebbe fare questa distinzione quando una moltitudine di intelligenze (artificiali e no), compresa la persona più potente del Radch, hanno più corpi — e tutti diversi per età, sesso, etnia? Come insegnano Edward Sapir e Benjamin Whorf, la lingua influenza la nostra percezione del mondo e la nostra percezione del mondo si riflette sulla lingua.

Nell’universo letterario creato da Ann Leckie non si intende cancellare il genere maschile, anzi, si è ben consci delle differenze sessuali nel definire certe cariche di prestigio. Basti ricordare che a dominare il Radch è una “Lord”, non una “Lady” (nella versione inglese, “the Lord of the Radch” è “she”), Il lettore può dunque usare l’immaginazione per decidere se i personaggi che incontra man mano sono uomini o donne o qualcos’altro. A coloro che le chiedono di conoscere il sesso di un dato personaggio, Leckie risponde: prendetelo come un test di Rorschach.

L’inglese differenzia il genere perlopiù nel pronome di terza persona singolare he/she e nel possessivo his/her. In italiano, invece, la distinzione si riflette anche su articoli, aggettivi, sostantivi, verbi. Tradurre questa trilogia produce quindi un effetto più “femminilizzante” e straniante rispetto all’inglese ma, d’accordo con Leckie, che già aveva accettato un approccio simile nella versione tedesca, si è scelto di correre tale rischio (diverso è il discorso per i due racconti qui pubblicati in appendice, composti prima che l’autrice maturasse la sua riflessione sul genere). Il risultato è una lingua sbilanciata al femminile, mentre l’italiano è solitamente sbilanciato al maschile (si pensi anche solo al fatto che un gruppo di persone viene indicato col maschile, a meno che non sia formato interamente da donne).

Uno dei punti più delicati riguarda le professioni e le cariche che sono tradizionalmente appannaggio di uomini, come quelle militari. Come tradurre captain? Il capitano? Poco inclusivo. La capitana? Potenzialmente dispregiativo. La capitanessa? Involontariamente sarcastico. (In merito si veda Alma Sabatini, Il sessismo nella lingua italiana, 1986.) In Italia il dibattito sul tema è ricco, ma basta confrontare le posizioni di istituzioni prestigiose come l’Accademia della Crusca o la Treccani, le Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo del MIUR (2018) e le tesi di intellettuali che si sono espressi in materia a titolo personale per constatare che non c’è accordo e che il tempo tende a rendere certe scelte o preferenze obsolete. Qui siamo di fronte a un’opera di finzione, e ciò che importa è rappresentare una cultura, una società e dei personaggi fittizi, non addentrarsi nel dibattito sulla lingua italiana — proprio come Leckie non si addentra nel dibattito sull’inglese americano. Per quanto possibile senza snaturare il testo originale, ho cercato di tradurre i termini indicanti professioni e cariche di rilievo con sostantivi che si adattassero sia al maschile sia al femminile (“interprete”, per esempio, non “traduttore” o “traduttrice”), ma concordandoli al femminile (quindi “la interprete”). Mentre per “captain” avremo “la capitano”, perché “la capitana” mi sembrava avere una connotazione autoritaria, più che autorevole, e poi per mantenere l’effetto di spaesamento cui ho accennato.

Vi assicuro che dopo aver letto poche pagine vi abituerete. Forse la vostra percezione cambierà, o forse immaginerete tutte le persone di potere in questa storia come uomini. Prendetelo come un test di Rorschach.

Quando la protagonista Breq ha a che fare con persone non Radchaai, può basarsi solo su alcuni segni esteriori, che cambiano da un sistema planetario all’altro, per determinarne il sesso. E, quando si rivolge a loro, per non sbagliare (cosa che le capita spesso) evita di usare i pronomi. Facile, in inglese! In questi casi, la sfida nella traduzione è stata quella di aggirare totalmente i riferimenti linguistici al genere dei personaggi.

Tutte le scelte sono state discusse e concordate con l’autrice, che ringrazio per la pazienza e la disponibilità.

Buona lettura!

F.M.


Ancillary è una opera affascinante (anche se magari non un capolavoro) più che per la trama in sé, proprio per la rappresentazione della società Radchaai: una società millenaria, brutalmente espansionista ma contemporaneamente estremamente legata a usanze e tradizioni. Tre su tutte: il pudore nel mostrare le mani, costantemente coperte da guanti, ben più sensibile rispetto ad altre parti del corpo – seno, genitali – la cui nudità non suscita altrettanto scalpore; il consumo di tè, onnipresente in qualsiasi momento della giornata (per inciso, la lettura dell’opera ha coinciso per me – precedentemente caffeinomane senza ritegno – ad un periodo di problemi gastrici con preclusione di alimenti e bevande irritanti come appunto il caffè che ho sostituito con tè e tisane, in quantità ancor più esagerate); l’uso di quello che chiamerò qui “femminile sovraesteso”.

Già nella riflessione condotta a partire dal libro Decostruzione antiabilista, avevo espresso delle perplessità sull’utilizzo di elementi volti a limitare l’uso del maschile sovraesteso col risultato però di stravolgere grammaticalmente la lingua italiana, e poi, nella già citata riflessione condotta a partire dal romanzo Lingua nativa, avevo espresso la convinzione che una lingua inclusiva può diffondersi solo se effettivamente usata, anche a livello orale. Ovviamente l’asterisco o la schwa, anche se trovassimo il modo di usarli sempre in modo rispettoso delle regole grammaticali e sintattiche, non possono essere “pronunciati” e quindi restano al massimo un espediente grafico e il làadan o eventuali altre lingue “artificiali” hanno il compito non certo semplice di diffondersi ed essere concretamente usate. In questo senso una soluzione alla Ancillary potrebbe essere non solo usata praticamente senza stravolgere alcuna regola, ma addirittura diffondersi senza particolari ostacoli. Certo, rimarrebbe l’obiezione logica simmetrica a quella per il maschile sovraesteso: l’uso del femminile sovraesteso in qualsiasi contesto (con la soppressione cioè del genere maschile in tutti quei luoghi dove si riferisce a persone) sarebbe “lesivo” del genere maschile. Ma siamo sicuri che dopo millenni di patriarcato, ancor oggi dominante, il problema maggiore sia quello di oscurare il genere maschile nella lingua? Onestamente sono tentato di applicare il femminile sovraesteso nelle mie comunicazioni (almeno in quelle personali: hai visto mai che quelle istituzionali portino ad altre sanzioni dopo quelle per aver condiviso le abitudini di lettura degli italiani…) per vedere l’effetto che fa e le relative reazioni.






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