La lettura di Homo ludens di Johan Huizinga, il testo che per primo consapevolmente e programmaticamente analizza il gioco all’interno della storia e della cultura umana, e che per questo viene considerato all’origine dei “game studies” (vedi qui per un parallelo tra l’analisi huizinghiana e l’antico classico cinese I Ching), pubblicato originariamente nel 1939, nell’edizione italiana (quella utilizzata dal sottoscritto è del 2002) Einaudi si arricchisce di un saggio introduttivo di Umberto Eco del 1973: “Homo ludens” oggi.
Sinteticamente Eco rimprovera ad Huizinga di non considerare nel suo testo la dicotomia, perfettamente esplicitata in lingua inglese, tra play e game. Play, l’oggetto del libro huizinghiano, è l’attività ludica, il giocare. Game è invece il sistema di regole e meccaniche del gioco. Nella sua critica ha ragione a sottolineare come Huizinga, che pure sottopone ad una analisi linguistica approfondita il concetto di gioco passando dalle lingue primitive a quelle orientali, medievali e moderne, abbia mancato ad un’analisi di tale dicotomia sicuramente illuminante, stante la sua tesi sulla genesi della cultura dall’attività ludica. Il giocare si trasforma in cultura quando si sedimentano i relativi rituali nei riti religiosi, nelle dispute accademiche, nei processi giudiziari, nell’arte e nel diritto della guerra, nelle procedure della scienza e dell’arte, ecc. D’altra parte Eco stesso manca completamente il proprio bersaglio quando ad esempio, con l’intento d’affondare il coltello nel fianco huizinghiano, afferma che:
...si può giocare perché esistono i giochi (ma non si può disinvoltamente asserire l’inverso, e cioè che i giochi esistono per far giocare: forse i giochi esistono in quanto si giocano da soli…) [evidenziazione mia]: tuttavia di omonimi si tratta [cioè “gioco” come attività e “gioco” come oggetto di tale attività] e non averli intesi come tali, non aver capito che ci sono due significati coperti da uno stesso significante, inficia tutto il discorso di Huizinga, continuamente turbato dal fantasma di un gioco-matrice che emerge ad ogni passo della sua analisi a turbare la ludicità del gioco-comportamento.
Qui la cantonata di Eco è assai più sonora e grave di quella presunta di Huizinga. Alla fine, per quanto l’erudizione linguistica dimostrata avrebbe potuto portarlo sulla strada di segnalare ed approfondire la dicotomia tra i due concetti, soprattutto nell’ottica di sviluppo storico della società attraverso il gioco (nel senso di play o di game?), Huizinga apre la strada all’analisi del gioco non all’interno dello sviluppo della società ma per lo sviluppo stesso, e nella foga di mostrare come i vari aspetti della cultura derivino dal gioco e senza analisi pregresse con cui confrontarsi, è in qualche modo comprensibile tale mancanza. Mancanza che Eco invece non può giustificare nei confronti dell’opera di Roger Caillois, I giochi e gli uomini, uscito in Francia nel 1958, che esplicitamente mostra, nella sua seminale classificazione dei giochi come il gioco (play) regolato e quindi con un preciso oggetto di gioco (game) sia esclusivamente un polo non esaustivo dell’attività ludica. Dunque è corretto l’esatto contrario di quanto sostenuto da Eco, e cioè che i giochi esistono per far giocare MA si può giocare anche senza giochi. Nel 1973 invece Eco non aveva ancora potuto conoscere l’opera ed il pensiero di Bernard DeKoven espresso prima in The Well-Played Game (1978 e 2013) e A Playful Path (2013). Ne ho già scritto qui e mi permetto di riprendere un passo dell’esposizione fattavi:
In A Playful Path Bernie approfondisce ed amplia esattamente il discorso là dove era arrivato [in The Well-Played Game]. In esso Bernie parla di "riserve di giochi" (games preserve) pensando esattamente ed esplicitamente al fienile della fattoria in cui s'era trasferito. Un luogo che aveva adattato per contenere i giochi ed i giocattoli che aveva raccolti, ed in cui ospitava familiari, parenti, amici ma anche semplici visitatori per giocare assieme. Quel che conta - sostiene in tutto il libro - non è il gioco (game) ma il giocare (play) che porta ad essere affiatate a considerare il gioco ben giocato (well-played game) come il risultato atteso piuttosto che la mera vittoria di uno o dell'altro giocatore. Il gioco ben giocato trasforma il gruppo dei giocatori in una comunità di gioco (play community), trasforma individui in una comunità.
Lasciamo un attimo DeKoven e torniamo ad Huizinga. Nelle pagine finali di Homo ludens Huizinga cerca il ludico nella società a lui contemporanea (immediatamente precedente la Seconda Guerra mondiale e già in balia delle follie totalitarie) e, come già rilevato nel confronto dall’I Ching, in una conclusione che sembra un commentario alla sentenza offerta dall’oracolo cinese, scrive:
Se questa qualità ludica vorrà creare o promuovere la cultura, allora dovrà essere pura. Non dovrà consistere nel pervertimento o nell'abbandono delle norme prescritte da ragione, umanità e fede. Non dovrà essere una falsa apparenza dietro la quale si mascheri un disegno di realizzare date mire con forme ludiche appositamente coltivate. Il vero gioco esclude ogni propaganda. Ha in sé la sua finalità. Stato d'animo e sfera sono quelli della lieta esaltazione, non dell'eccitazione isterica. La propaganda odierna che cerca di sequestrare ogni campo di vita, usa i mezzi destinati ad ottenere isteriche reazioni di massa, e perciò non si può accettarla - neppure quando assume delle forme di gioco - come una manifestazione moderna dello spirito ludico, ma soltanto come una sua falsificazione.
Se guardiamo alla nostra contemporaneità la situazione per certi versi è ancora peggiore di quella ravvisata da Huizinga e si concretizza alla perfezione nelle parole con cui Ronald D. Laing apre il suo Nodi (Einaudi, 1976):
Stanno giocando a un gioco.
Stanno giocando a non giocare a un gioco.
Se mostro loro che li vedo giocare, infrangerò le regole e mi puniranno.
Devo giocare al loro gioco, di non vedere che vedo il gioco.
Nel mondo odierno la ludicizzazione è ubiqua e consapevole: si ludicizza il processo formativo, si ludicizzano le pratiche del lavoro, l’economia obbedisce alla teoria dei giochi, la politica ritorna alle tecniche polemiche dei sofisti greci, lo sport è una delle attività maggiormente seguite e redditizie tanto che quando il videogioco “passa di livello” diventa un e-sport (con tutto il mantra perverso relativo alla meritocrazia che non premia quasi mai chi davvero è più bravo: vedere C.A. Paul The Toxic Meritocracy of Video Games; Why Gaming Culture Is the Worst, University of Minnesota Press, 2018). In realtà tutti questi giochi (game) non sono veri giochi (play) (ed il farlo notare è l’infrangere lainghiano delle regole ma non l’essere huizinghianamente guasta-feste - anzi: guasta-giochi - proprio perché questi non sono giochi) ma piuttosto la forzatura a fini esteriori delle attività ludiche (che sia Huizinga che l’I Ching sostengono destinata a portar rovina sociale). Per questo alla fine al gioco come game, al gioco-matrice, preferiamo lo huizinghiano play, il gioco-comportamento, approfondito dall’esortazione di DeKoven di curarci poco di regole e condizioni di vittoria quanto piuttosto di far sì che l’esperienza ludica sia un’esperienza di qualità che serva a farci stare bene assieme agli altri. Occorre quindi smontare la ludicizzazione per tornare a giocare...
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