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Il software del linguaggio (simbolico)

La lettura del libro Il software del linguaggio di Raffaele Simone (Raffaello Cortina, 2021) mi sembra utile - per quanto l’autore arrivi al massimo a trattare problematiche relative al Linguaggio dei segni - anche nell’orizzonte della riflessione sulla creazione di un nuovo linguaggio simbolico. 

Importantissimo in particolare (non solo, ma certamente anche, per il linguaggio simbolico) il rilievo che Simone fa nel capitolo conclusivo sull’importanza fondamentale della narrazione per l’invenzione e lo sviluppo del linguaggio. Riporto quanto scrive:

Siccome il narrare è un’esigenza umana insopprimibile, anzi, secondo alcune ipotesi, è uno dei motivi per cui Homo è diventato sapiens, è sorprendente che questo tema non sia stato messo alla base di un’elaborazione generale sul linguaggio. È stato necessario il lavoro pluridecennale del biologo evoluzionista R.I.M. Dunbar per accreditare l’ipotesi che il linguaggio si è sviluppato a partire da forme elementari di “chiacchiera” (gossip). Il bisogno di chiacchierare però non nasce ex abrupto: secondo Dunbar, la chiacchiera umana è la continuazione con altri mezzi del grooming dei primati, cioè di quell’insieme di gesti (esistenti anche presso gli umani: carezze, grattamenti, toccamenti, pressioni ecc.) con cui si manifestano “cura” e “attenzione” verso l’altro e si cerca di accrescere il suo benessere. La differenza sta nel fatto che il grooming può essere praticato solo in piccoli gruppi (in coppia o poco più), mentre la chiacchiera si può praticare in gruppi più vasti e quindi favorisce la formazione di conoscenze e alleanze più ampie.

Gli umani non devono aver tardato molto a rendersi conto che il linguaggio è ben più ricco del grooming quanto a vantaggi sociali: permette di scambiare informazioni, raccontare storie, chiedere consigli, vantarsi, convincere, ingannare, mentire. Non a caso, secondo i calcoli di Dunbar, dedichiamo al gossip circa il venti per cento del tempo, più o meno la stessa percentuale che i primati dedicano al grooming. Inoltre, per il sessantacinque per cento di quel tempo, il tema del gossip è costituito dalle relazioni tra le persone. Ciò può significare che gli umani se ne servono soprattutto per parlare dei fatti degli altri, intrattenere rapporti, creare alleanze e costruire la propria reputazione. Alla fine dei conti, questi dati dimostrano un forte nesso tra la propensione a parlare dei fatti altrui e il fatto di disporre di una teoria della mente: parlando degli altri, è infatti inevitabile immaginare che cosa pensano, come vedono le cose e che intenzioni hanno.

Ulteriori elementi a sostegno dell’idea che il gossip sia primigenio si ottengono se ne sviluppiamo l’idea generale. In moltissimi casi il gossip incorpora una narrazione, cioè una storia (vera, immaginata o inventata; passata, futura o mai esistita) che si dipana nel tempo, con personaggi, eventi, moventi, oggetti ecc. Inoltre, tutti gli esseri umani senza eccezione producono narrazioni.Narrano non solo il poeta orale che racconta le imprese di eroi, dèi e antenati o il romanziere che mette per iscritto storie intrecciando invenzioni, fantasie e ricordi. Narrano anche la fruttivendola che racconta della sua andata mattutina ai mercati generali, il testimone che racconta al giudice quel che ha visto, il bambino che tornando da scuola si lamenta dei brutti voti o racconta le cose che ha imparato, l’automobilista che descrive l’incidente a cui è sfuggito. Narrano l’ammalato che racconta al medico i suoi guai, ciascuno di noi mentre racconta i suoi sogni, il bugiardo che inventa storie non vere, il truffatore che mente alla polizia, il penitente che racconta al prete i suoi peccati, gli amanti che ricordano la felicità che sfiorarono e i motivi per cui la perdettero…

Alcune narrazioni sono storie fluenti (avanzano senza intoppi e tendono verso una conclusione), altre invece sono tentativi di riordinare frammenti e di percorrere sentieri che si aprono a ogni momento. La narrazione è inoltre sensibile al tema di cui parla, al medium che la convoglia e all’ecologia in cui è prodotta. È noto per esempio che la modernità digitale ha portato nuovi modi di raccontare e nuove rappresentazioni culturali delle storie narrate. A questa varietà di casi corrisponde una gran varietà di forme, che è ben lungi dall’essere stata descritta per intero. Le forme letterarie sono state studiate in modo approfondito; quelle quotidiane no.

Data l’importanza della narrazione nell’esperienza umana (anche nella forma primigenia del gossip), è naturale che le lingue si siano attrezzate per dargli espressione, sviluppando risorse di diversa natura. Al livello fonologico, per esempio, il racconto spontaneo si serve di una gamma di intonazioni che cambia secondo la natura del racconto: quando si racconta una favola a un bambino si usano intonazioni diverse da quelle con cui si racconta una storia vera ad un adulto; il sogno, per parte sua, viene narrato (tanto a un terapeuta quanto a un amico) con intonazioni dedicate ancora diverse, che non mi pare siano state mai esaminate. Anche il bambino impara attorno ai tre anni a raccontare le favole con una “intonazione da favola”, diversa da quella che usa per parlare di fatti reali.

Oltre all’intonazione, altri elementi fonici indicano se il discorso è una narrazione o no e di che tipo è. [...]

Approfondendo questa linea di riflessione, mi sono convinto che il linguaggio si è evoluto in misura importante proprio per favorire la narrazione, per rispondere cioè alla necessità di raccontare, dapprima quella ingenua del narratore qualunque, poi quella esperta del’’autore. Per effetto di ciò, la grammatica delle lingue ha sviluppato risorse che servono principalmente a quello scopo.

La narrazione è quindi un potente generatore di risorse grammaticali. Se l’Homo loquens va visto primariamente come Homo narrans, la grammatica andrà vista analogamente come una “cassetta di utensili” fatti apposta per narrare. Si può persino supporre che le altre funzioni del linguaggio sfruttino in modo parassitario un apparato elaborato originariamente per tutt’altro scopo, cioè a vantaggio della narrazione. (p. 211-215)

La lunga citazione serve a mostrare quale sia la conclusione (e le conclusioni) del libro, ma, per certi versi pure le sue premesse. Infatti procedendo a ritroso nella lettura del libro a partire da esse possiamo renderci conto di come tutte le strutture linguistiche mostrate dall’autore non corrispondano affatto ad un “software” (come del resto ammette egli stesso) ma piuttosto ad una molteplicità di strumenti assai flessibili che - in varia misura nelle varie lingue e nelle rispettive attualizzazioni storiche - si adattano appunto a trasmettere significati (come abbiamo appena visto, prioritariamente in forma narrativa). Simone mette in chiaro l’arbitrarietà del collegamento tra significato (le cose, i concetti) e significante (le parole utilizzate per rappresentarli). Molto più rilevanti per lo sviluppo del linguaggio le strutture sintattiche che permettono la costruzione di elaborati. Strutture che Simone mostra come siano molto più trasversale alle varie lingue di qualsiasi rappresentazione semantica. Le strutture ammettono gradi di flessibilità che permettono di spostare i significati attraverso le principali modalità semantiche che funzionano come un continuum. Le principali modalità semantiche sono quelle degli oggetti, dei verbi e delle modificazioni (aggettivi). Queste tre modalità trovano espressione in ciascuna lingua (storicamente attualizzata) in modi e soluzioni diverse ma che in qualche modo si riconducono a matrici comuni.

Questo mi ha fatto riflettere sull’attenzione posta a riprodurre - nel modello di linguaggio simbolico - il significato piuttosto che il modello lessicale. L’attenzione cioè a offrire una rappresentazione il più possibile im-mediata dell’oggetto e/o dell’azione significata a scapito di una riflessione e adeguata riproposizione delle strutture linguistiche. Un riflessione del genere è stata invece condotta per il gioco in simboli A un certo PUNTO: di fronte alla necessità di un gioco che come meccanica fondamentale avesse la costruzione di una frase con elementi lessicali fondamentali, ci si è posti il problema di come rendere evidente il fatto che certi accostamenti non erano appropriati. La soluzione si è trovata realizzando tessere di colore diverso per i 3+1 elementi fondamentali della frase: oggetti, verbi e aggettivi+elementi relativi (articoli, congiunzioni e pronomi). Nel lavoro di predisposizione di un nuovo linguaggio simbolico ci si è molto focalizzati sul modo di rendere le persone incapsulate nelle azioni (ad esempio: prendi-la, perder-si, ecc.). Sostanzialmente la riflessione si è focalizzata su come visualizzare con maggiore precisione il significato del significante. Forse questo ha nascosto o fatto perdere di vista il sistema di relazioni tra significanti imprescindibile per creare un vero e proprio linguaggio. Il significato infatti - mostra molto bene Simone - può transitare da una modalità all’altra del linguaggio e la comprensibilità complessiva per il ricevente del messaggio non sta tanto (solo) nella precisione della corrispondenza tra significante e significato quanto nella fedeltà e chiarezza della composizione della frase. La dimostrazione è che frasi metaforiche o metonimiche come “bere un bicchiere” o “cadere dalle nuvole” non rappresentino un problema di comprensione per il ricevente per quanto letteralmente non abbiano senso. Esattamente perché il senso non è nella corrispondenza stretta tra significante e significato (secondo la quale dovrebbe esserci qualcuno che inghiotte pezzi di vetro o si schianta a terra precipitando dal cielo) ma piuttosto nelle regole implicite alla costruzione della frase che consente di estendere al contenuto le proprietà del contenitore o di translare il significato di passare da un luogo etereo ad uno prosaico alla realtà di accorgersi improvvisamente di qualcosa che pure era sotto i nostri occhi. 

Il linguaggio (quello verbale più di quello fissato nella scrittura) è fluido e legato in maniera più o meno flessibile a modalità d’uso che le grammatiche tendono a presentare in forma cristallizzata. Ma, al di fuori dei testi scolastici,

il linguaggio è in un certo senso “invisibile” e “inafferrabile”. Questo è uno dei suoi aspetti più enigmatici, oltre che uno dei più sfibranti per chi lo studia. Sebbene lo adoperiamo tutto il giorno, chi si propone di studiarlo si accorge presto che catturarlo davvero non è possibile. (p. 251)

Ce lo aveva già raccontato, del resto, un genio dell’analisi sociale attraverso la fantascienza come Robert Sheckley nel suo racconto del 1965 Shall We Have A Little Talk? (tradotto col titolo Mun-Mun in Fantasma Cinque, Mondadori, 1981 - Urania, 880) dove la conquista di pianeti extraterrestri è delegata non ad armate e guerre ma all’opera di abili agenti immobiliari esperti di lingue. Il principio è che non serve iniziare dispendiose guerre se è possibile acquistare il pianeta per ninnoli e specchietti. Ma la sconfitta abissale arriva là dove il linguaggio evolve ad una velocità tale (e tanto più veloce in quanto sollecitato al cambiamento dal rapporto con l’esterno) da rendere impossibile all’agente terrestre di riuscire a scrivere un contratto.

Nel mondo in cui viviamo il linguaggio non si evolve a tale velocità ma non di meno nella realizzazione di un linguaggio, sia pure un linguaggio che non sia autonomo ma di supporto al linguaggio corrente (o forse proprio perciò a maggior ragione), occorre allore tenere in considerazione non solo il rapporto significante-significato, ma anche tentare di riprodurre il complesso modello che lega i significanti in frasi coerenti. Per far questo, in A un certo PUNTO si è convenuto di rappresentare in modo diverso le varie principali categorie di significanti, nel linguaggio simbolico normalmente appiattiti in una rappresentazione comune. 

Prendiamo ad esempio una frase relativamente semplice (uno degli esempi riportati nel libro):

Il troppo bere fa male

In questa frase abbiamo formalmente due verbi (bere e fa) ma da un lato fa in realtà è seguito da un aggettivo che ne è parte costituente (fa male - ed eventualmente il suo contrario fa bene - sono in realtà una frase verbale unica) e dall’altro l’infinito bere è un verbo sostantivizzato, tanto è vero che è possibile apporvi l’articolo e coordinarvi un aggettivo. Quindi in realtà se dovessimo marcare come oggetto/verbo/aggettivo il termine bere in questo caso occorrerebbe marcarlo come oggetto, magari segnalando che l’intera frase Il troppo bere costituisce il soggetto del verbo fa male. Questa costruzione può essere però declinata anche in altri modi, seppure con spostamenti non secondari di senso. Ad esempio possiamo dire:

Se bevo troppo sto male

oppure

Sto male perché ho bevuto troppo

In entrambi i casi la principale sto male regge una secondaria che però nel primo caso è la sua condizione mentre nel secondo la causa.

Traducendoli in simboli abbiamo:

Da un punto di vista non dei significanti, ma della struttura della frase, abbiamo dei termini equivalenti come rappresentazione. Al contrario, da un punto di vista della rappresentazione delle modalità di costruzione della frase fa male e sto male forse dovrebbero essere elementi raggruppati in quanto il significato complessivo è dato dalla loro unione; oggetti/verbi/aggettivi dovrebbero essere distinti (da riquadri di colore diverso? da riquadri di forma diversa? potrebbe essere utile prendere spunto dai connettori usati nei diagrammi di flusso? forse quest’ultima soluzione, tenendo conto anche della pubblicazione editoriale sarebbe migliore). Nella prima frase, in una differenziazione delle diverse categorie di termini, abbiamo la scansione articolo-aggettivo-oggetto-verbo. La prima frase è l’unica col soggetto esplicito ([Il troppo] bere): nella seconda e nella terza il soggetto [io] è sottinteso ma entrambe sono frasi concrete, per quanto la seconda abbia un valore ipotetico. Anche queste sono condizioni che le lingue esplicitano in vari modi e forse non sarebbe inutile valutare una riflessione su come rendere la differenza tra tipo di frase: teorica/ipotetica/concreta. Simone sottolinea come ci siano lingue che vanno ancor più nello specifico trovando il modo d’indicare se la frase è frutto della diretta testimonianza del parlante o se si tratta al contrario di una frase di fantasia. Dato che l’italiano non ha un tale grado di specificità forse è improprio addentrarsi in tali soluzioni, ma non è assolutamente inessenziale invece cercare di capire come rappresentare le modalità effettivamente presenti.

Un esempio opposto, di oggetto verbalizzato, è:

Il fumo fa male

che corrisponde a

Fumare fa male

In queste due frasi Il fumo e fumare hanno esattamente la stessa funzione anche se si tratta di voci grammaticalmente diverse.

Quello che comunque, a prescindere dall'effettiva traduzione in un linguaggio simbolico delle modalità di costruzione della frase, è assodato da Simone nel suo testo è l’utilità, meglio l’indispensabilità di un contesto narrativo alla formazione, all’acquisizione di un linguaggio. Là dove l’acquisizione di un linguaggio è complessa per una varietà di motivi (diversa lingua madre, limiti psicologici/fisici/neurologici, ecc.) la semplice esposizione a significanti collegati (comunque arbitrariamente) a significati non è uno strumento sufficiente. Indispensabile - anche nella forma minimale della chiacchiera/gossip - è che questi significanti siano collegati in narrazioni che spingano il ricevente ad “uscire da sé”, a fare qualche pur piccolo passo in direzione degli altri (e di se stesso come altro da sé) per “mettersi nei loro panni”. Un’attenzione gradualmente maggiore alla struttura della frase diventa allora un elemento essenziale alla intrinseca narratività del linguaggio anche all’interno del linguaggio simbolico.


 

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